(materiali)
(di
Marilena Masiero con la
prefazione di Daniela Mariani
Cerati)
3) Dopo la
scuola il nulla?
Scuola
e Inclusione
1)
La Scuola inclusiva secondo
Massimo Antonucci, docente di
sostegno in un Liceo e allievo
del compianto Andrea Canevaro
[ vai
al documento ]
Graziella
Roda* ha esaminato il nuovo
Piano Educativo Personalizzato
(PEI) con una serie di
approfondimenti riguardanti
non solo il PEI in quanto
tale, ma anche il
contesto nel quale il PEI deve
essere compilato e soprattutto
applicato.
Ritenendo
questo materiale, frutto di
una vita di studio e di
esperienza sul campo, prezioso
e meritevole di un’ampia
platea, pubblichiamo i
contributi apparsi nella lista
"autismo-scuola" ad esso
dedicati"
Come sapete,
però, il 31
dicembre 2020 è
stato pubblicato il
decreto 182/2020 che
riporta,
tra le altre cose, le
linee guida concernenti la
definizione delle
modalità, anche
tenuto conto
dell'accertamento di cui
all'articolo 4 della legge
5 febbraio 1992, n. 104,
per l'assegnazione delle
misure di sostegno di cui
all’articolo 7 del D.Lgs
66/2017 e il modello di
PEI, da adottare da parte
delle istituzioni
scolastiche.La
lunga disamina del decreto
fatta dalla Dottoressa
Roda contiene
considerazioni pedagogiche
che vanno oltre il
contenuto del decreto e
pertanto le lasciamo e
invitiamo a leggerle e
meditarle.
Pubblichiamo
la mail con la quale
Graziella annuncia
l’annullamento del
decreto, eccola:
"Come
ormai si sa, il TAR del
Lazio, con sentenza n.9795
del 14 settembre 2021 ha
annullato in toto il
Decreto interministeriale
n.182 del 2020 (e
allegati); il decreto
riguardava i nuovi modelli
nazionali di PEI.
Per
fornire le prime
indicazioni alle scuole,
visto che l'anno
scolastico è
avviato, il Ministero
Istruzione ha emanato la
nota prot.2044 del 17
settembre 2021, nella
quale si ricorda che la
normativa di riferimento
(e cioè il Decreto
Legislativo n.66/2017 come
modificato dal successivo
decreto legislativo
n.96/2019 è
vigente, per cui si
prosegue con le
modalità seguite
fino allo scorso anno.
Inserisco
due dei numerosi link dai
quali si può
scaricare sia il testo
della sentenza sia la nota
ministeriale sopra citate:
e
Qui di seguito gli
approfondimenti precedentemente
pubblicati:
* Graziella
Rosa, pedagogista con
esperienza pluridecennale di
docente di scuola primaria,
ha fatto un’analisi critica
di tale decreto, che ora il
TAR del Lazio, con
sentenza n.9795 del 14
settembre 2021, ha
annullato in
toto.
Storia
dell'inclusione
scolastica
2)
Anni fa ho conosciuto
Antonio Guidi, molto prima
che diventasse ministro
per la famiglia
e
la solidarietà
sociale.
https://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_Guidi_(politico)#:~:text=Antonio%20Guidi%20(Roma%2C%2013%20giugno,sociale%20nel%20governo%20Berlusconi%20I.
Era
neuropsichiatra infantile,
impegnato nel rapporto con la
scuola per quanto riguardava
gli alunni certificati.
Essendo nato nel 1945 ed
essendo affetto da tetraparesi
spastica, non era stato
ammesso a nessuna scuola fino
al liceo, quando fu accettato
in un liceo privato.
Essendo
una persona intelligente e
comunicativa, mi chiedevo
quale crudeltà portasse
i nati nel 45 ad essere
esclusi dalla scuola di tutti.
Ma
le leggi di allora tenevano
ben distinte le scuole
speciali dalle scuole normali.
Nel
suo caso la disabilità
era solo motoria,
disabilità per la quale
basta togliere le barriere
architettoniche e tutto viene
risolto.
Più
complesso è il caso
della disabilità
intellettiva e dei disturbi
del comportamento.
Qui
non si tratta di mettere degli
scivoli e degli ascensori, ma
di imparare quelle strategie
di insegnamento che si possano
adattare al proprio allievo
disabile, così come un
vestito viene fatto su misura
dal sarto e non comprato al
supermercato.
Anche
se ancora vi sono luci ed
ombre, il ricordo della
segregazione di qualche
decennio fa deve renderci
orgogliosi della strada fatta
verso l’inclusione scolastica.
Per
ripercorrerla ho chiesto di
darcene un resoconto ad una
maestra elementare, Marilena
Masiero, che ha iniziato la
sua carriera nel 1969, quando
ancora c’erano le scuole
speciali e che ha poi vissuto
in prima persona le
ripercussioni delle leggi sul
proprio lavoro
Daniela
Mariani Cerati
Cara
Daniela,
ho
parlato a lungo con una
collega che ha speso tutta la
sua vita lavorativa come
insegnante di sostegno ed ha
visto quindi svilupparsi nel
tempo tutta l’ evoluzione
delle leggi, disposizioni,
normative a tutela dei bambini
diversamente abili.
Personalmente
io ho cominciato a insegnare
nel lontano 1969 quando
c’erano ancora le classi
differenziali e le scuole
speciali. Vale a dire quando
nel “calderone” c’erano tutti
i bambini svantaggiati senza
distinzione fra autistici,
Down, ecc…
Le
insegnanti al termine delle
lezioni assicuravano che alla
fine sarebbero diventate
speciali anche loro!
Bisognò
aspettare il 1971 con la legge
118 che all’art 28 stabiliva
che l’istruzione dell’obbligo
doveva avvenire nelle scuole
normali della scuola pubblica.
Ci
furono allora i primi
inserimenti di questi bambini
all’interno della classe
“normale”, ma noi insegnanti
eravamo disarmate,
letteralmente disarmate, senza
alcun tipo di preparazione
specifica.
Pienamente
consapevoli delle nostre
carenze, ognuna di noi cercava
di documentarsi al meglio,
ricorrendo ai trattati di
pedagogia, metodologia e
psicologia degli autori
più accreditati per
cercare di capire la
differenza tra i vari tipi di
handicap ed il modo migliore
per approcciarci con i nostri
alunni più sfortunati.
Il
Ministero dell’Istruzione
probabilmente faceva
affidamento sulla nostra buona
volontà, sulla speranza
che prima o poi un modo per
integrarli all’interno della
classe l’avremmo trovato, ma i
risultati chiaramente
lasciarono molto a desiderare.
Fu
la legge 517 del 1977 che
introdusse finalmente la
figura di un insegnante
specializzato per le
attività di sostegno.
Legge che stabiliva anche con
chiarezza gli strumenti e le
finalità per
l’integrazione scolastica
degli alunni con
disabilità.
Il
progetto si sarebbe attuato
con la presa in carico
dell’intero Consiglio di
Classe.
Finalmente
una risorsa in più per
l’insegnante di classe che si
vedeva affiancare un / una
collega con cui condividere il
piano di lavoro concordato e
mirato all’integrazione del
bambino disabile.
In
teoria le finalità
della 517 erano molto valide,
in pratica purtroppo non
sempre risultarono tali,
perché l’accordo tra le
maestre non era scontato.
L’insegnante di classe in
alcuni casi si riteneva di
serie A mentre relegava alla
serie B la collega di
sostegno. Se non c’era
un’intesa di fondo nel modo di
svolgere la didattica ora
l’una, ora l’altra si sentiva
giudicata e non sempre il
giudizio era favorevole.
Inoltre il bambino / a
diversamente abile a volte
disturbava il normale
svolgimento delle
attività con i suoi
modi ed atteggiamenti
incontrollati e per questo
veniva facilmente allontanato
/ a dalla classe.
Con
questi presupposti non veniva
certo garantita la
continuità didattica
negli anni successivi.
Ci
furono però molti casi,
nonostante tutto, in cui tra
le insegnanti c’era una buona
intesa e comunità di
intenti per cui i risultati
furono decisamente
soddisfacenti.
E’
però la legge 104/92
che raccoglie ed integra tutti
gli interventi legislativi
promulgati dopo la 517/77 che
diviene il punto di
riferimento normativo
dell’integrazione scolastica,
quando cioè viene
fissata per ogni alunno/a
diversamente abile la
certificazione elaborata
dall’U.S.L. e viene realizzato
il P.E.I. (Piano educativo
individualizzato) in cui si
delineano le caratteristiche
fisiche, tecniche, sociali ed
affettive dell’alunno,
mettendo in rilievo le sue
difficoltà di
apprendimento ma anche le sue
possibilità di
recupero. Il P.E.I. si avvale,
oltre che degli operatori
dell’U.S.L e degli apporti
degli insegnanti di classe e
di sostegno. anche del
personale specializzato della
scuola e della collaborazione
dello scolaro/a e della sua
famiglia. Il profilo
aggiornato seguirà lo
studente per tutto il percorso
scolastico, dalla materna alla
media e periodicamente alla
scuola superiore.
Con
questa legge ormai non si
parlava più
fortunatamente solo di
inserimento ed anche il
termine “integrazione”
assumeva un altro significato
perché non era
più l’alunno/a
disabile, pur seguito
dall’insegnate di sostegno,
che doveva adattarsi alla
classe, alla programmazione
delle materie curricolari, ai
ritmi di apprendimento
stabiliti ma era tutto il
personale docente e non
docente che doveva cercare le
strategie per far emergere
nell’alunno/a tutte le sue
possibilità di
recupero, tutte le sue
capacità individuali
che dovevano essere sostenute
e rafforzate.
Oggi
si parla di “inclusione” ed
infatti questo è il
termine più
appropriato. E l’inclusione
dell’alunno diversamente abile
per me cominciò allora,
con il supporto di “tutte le
forze disponibili sul campo”.
La
104 aveva il merito di
definire e selezionare al
meglio i vari tipi di handicap
(Down, autistici ecc…) e
questo consentiva la
realizzazione di un P.E.I.
più mirato e
maggiormente finalizzato, ma
si sentiva anche la
necessità, alla luce di
nuove ricerche, studi ed
esperienze nel settore
handicap, di insegnanti, di
sostegno e non, sempre
più preparati per
portare a termine il difficile
compito prefissato.
So
che nel 2010 venne promulgata
la legge 170 che stabiliva
nuove norme in materia di
disturbi specifici di
apprendimento tra i quali la
dislessia, la disgrafia, la
disortografia e la discalculia
(sempre notevoli passi avanti
nel settore) ma io ero
già in pensione e non
più direttamente
coinvolta.
So
però, come insegnante,
quanto sia importante dal
punto di vista tecnico la
formazione degli insegnanti
sia di classe che di sostegno
per il raggiungimento di
un’unità di intenti e
per una collaborazione fattiva
per la formazione di bambini/e
diversamente abili, ma so
anche quanto sia importante
l’empatia, la
disponibilità, la
capacità mettersi
sempre in gioco, soprattutto
con i bambini/e autistici che
hanno così gravi
difficoltà ad
apprendere, a comunicare, a
relazionarsi ed a interagire
con gli altri.
Auspico
che il cammino accidentato
della scuola diventi sempre
più agevole con la
collaborazione e la disponibilità
di tutti.
Marilena
Masiero
Dopo
la scuola il nulla?
3)
Nel
settembre 2020 sulla rivista
online “Studi e Documenti”
dell’Ufficio Scolastico
Regionale dell’Emilia Romagna
sta scritto
“Capita
spesso
che nell’imminenza della fine
della scuola secondaria di II
grado, i dirigenti scolastici e
i docenti si sentano chiedere di
trattenere gli alunni con
disabilità, per dare
ancora tempo, perché
iragazzi lì si trovano
bene, soprattutto perché
non si sa cosa faranno dopo”
https://www.istruzioneer.gov.it/wp-content/uploads/2021/02/Quaderni-Autismo-5.pdf
Leggendo
queste parole, viene in mente la
testimonianza di una mamma
raccolta nel libro “Il nostro
autismo quotidiano” del 2003
https://www.erickson.it/it/il-nostro-autismo-quotidiano
Lo
stralcio che copio dal libro
è di lettura agevole,
quasi divertente, ma dimostra
che la problematica del dopo la
scuola presente nel 2003 resta
invariata nel 2020 e questo deve
stimolare le istituzioni a
stilare un progetto di vita di
ampio respiro che parta
dall’adolescenza e non si fermi
alla fine della scuola, ma
continui fino all’età
adulta, senza rinnegare le
scelte di promozione della
qualità della vita e di
inclusione nella società
che sono alla base della
legislazione scolastica italiana
“WANTED”
“Spicciati!
Dobbiamo
uscire di casa prima che
arrivino i carabinieri!”
Antonella,
che aveva quindici anni, era in
quel momento di grazia, che si
ripete ogni mattina, in cui
sembra solo una ragazzina pigra,
col bel viso addormentato e un
solo grande desiderio: tornare a
letto; associato però
alla consapevolezza che chi
comanda è la mamma e,
come ogni giorno, bisogna
rassegnarsi al triste destino di
alzarsi.
Era
totalmente indifferente all’idea
dei carabinieri e al motivo per
cui era ricercata, mentre io ero
tesa, impegnata a portare a
termine la missione di far
perdere le sue tracce prima
delle otto.
Quando,
alle sette e tre quarti, siamo
riuscite a varcare la porta di
casa e ci siamo trovate sulla
strada, ho finalmente tirato un
sospiro di sollievo: “Siamo
fuori pericolo!”.
A
questo punto però si
poneva un nuovo problema. “Cosa
facciamo fuori casa a quest’ora?
Dove andiamo?” Passando davanti
ad una chiesa, ci siamo entrate,
come in altri tempi i condannati
in cerca di asilo
Iniziava
una messa proprio in quel
momento, cosa che mi è
sembrata utile al nostro scopo.
Ma, trattandosi di un giorno
feriale, la messa, senza omelia
né altri cerimoniali,
alle otto e venti era già
finita, troppo presto per andare
a casa di Marta e Susanna, le
amiche che ci avevano offerto
ospitalità purché
non arrivassimo troppo presto,
dal momento che madre e figlia,
rispettivamente insegnante e
studentessa, quel giorno non
avevano impegni e volevano
godersi la giornata di vacanza
dormendo per buona parte della
mattinata.
Abbiamo
quindi girato senza meta per le
vie del centro fino alle nove e
mezza, quando abbiamo ritenuto
che non fosse più
scandaloso suonare al campanello
delle amiche, che sono venute ad
aprirci in camicia da notte con
aria più rassegnata che
entusiasta.
Eravamo
entrambe nuove alla giustizia e
in effetti non avevamo né
rubato, né danneggiato
persone o cose, né ci
eravamo macchiate del reato di
falso in bilancio o di interesse
privato in atto pubblico. In
quanto poi dipendenti del
pubblico impiego nessuno in
famiglia poteva aver compiuto
neanche la più piccola
evasione fiscale. Volevamo
semplicemente essere bocciate
per ripetere la terza media e le
insegnanti, conniventi, ci
avevano telefonato la sera prima
consigliandoci di non farci
trovare in casa il giorno
seguente in quanto, trattandosi
della scuola dell’obbligo, la
preside avrebbe potuto mandarci
a casa i carabinieri per
costringere Antonella a
presentarsi all’esame ed essere
promossa contro la
volontà dei genitori.
La
lotta per le bocciature, che ha
avuto momenti non meno aspri
della lotta per le investiture,
era iniziata cinque anni prima,
quando Antonella aveva iniziato
la scuola media.
L’ingresso
alle medie era stato preparato
con anni di anticipo. L’amica
Anna, addetta ai lavori in
quanto insegnante, ci aveva
caldamente consigliato, fin
dalla quarta elementare, la
scuola Giacomo Leopardi che,
oltre ad essere vicina, si
presentava con caratteristiche
molto promettenti per accogliere
Antonella in modo ottimale.
Si
trattava di una scuola per
accedere alla quale facevano
carte false anche i figli di
illustri professori universitari
per l’alto livello di
preparazione che dava e che
faceva poi fare ottime figure
alle scuole superiori, ma,
merito molto più grande,
si era attrezzata, con persone e
ambienti, in modo tale da poter
accogliere nel modo migliore
anche gli allievi meno dotati,
compresi i gravissimi, e
l’anziana preside era orgogliosa
di questo almeno quanto e forse
più della caratteristica
per la quale la scuola era nota
in tutta la città: l’alto
livello di preparazione che dava
ai normo e ai superdotati.
La
cultura della solidarietà
e il conseguente impegno per
l’integrazione era profondamente
sentito e interiorizzato da
tutto il personale e si
rifletteva, come in uno
specchio, negli studenti e nei
genitori, ma a questa
virtù, non rara nella
nostra città, si univa un
sano realismo. La saggia
preside, anziana insegnante di
matematica, Signorina Mari, che
amava presentarsi come
“Signorina” quasi a sottolineare
il suo impegno e il suo amore
senza rivali per la scuola,
aveva già accolto negli
anni precedenti ragazzi
gravissimi, compresi
cerebropatici impediti nella
mente e nel movimento. Pur
condividendo l’impulso,
simpaticamente diffuso nella
nostra regione, ad integrare
sempre e comunque, aveva
constatato
l’impossibilità e la non
opportunità a tenere
sempre in classe i gravissimi,
che, essendo incapaci di seguire
le lezioni, si sarebbero
annoiati e non avrebbero
beneficiato di un insegnamento
individuale, finalizzato al
raggiungimento di obiettivi
utili per la vita adulta, in
particolare per l’autonomia
personale e per le esigenze
primarie della vita quotidiana.
Nonostante questo sano realismo,
contrapposto alla visione
utopistica di sessantottina
memoria, non aveva ceduto alla
tentazione di fare gruppi di
disabili ghettizzandoli; aveva
invece creato spazi appositi che
venivano utilizzati sia per
l’insegnamento individuale, sia
per la socializzazione in
piccoli gruppi, costituiti dal
ragazzo disabile e da qualche
normodotato con funzione di
tutor e di maestro di
socializzazione. A tal fine
venivano sfruttate tutte le
risorse offerte dalla scuola,
compresi gli esoneri dalla
religione e dalla ginnastica .
Le ore di insegnamento
individuale e in piccoli gruppi
venivano poi alternate alla
presenza in classe per tutto il
tempo utile e tollerabile per il
ragazzo disabile. Nell’ala della
scuola destinata a questo tipo
d’insegnamento c’era anche una
cucina, spaziosa e luminosa, che
poteva servire ad una doppia
funzione: far lavorare Antonella
esercitandola in esercizi
manuali finalizzati alla
preparazione di cibo e farle
consumare a scuola il pranzo,
con la doppia finalità di
sfruttare l’opportunità
educativa insita
nell’attività di pranzare
in compagnia dell’insegnante e
di permettere a noi genitori di
andarla a prendere alle due
anzichè all’una, ora in
cui entrambi eravamo ancora al
lavoro.
Sfruttando
il fatto che Antonella
frequentava la scuola elementare
a tempo pieno e aveva il sabato
libero, la preside ci aveva
proposto di frequentare la
scuola Leopardi il sabato
mattina già dalla quinta
elementare, in modo da
famigliarizzarci con l’ambiente
e con le future insegnanti.
Questa frequenza del sabato
aveva più le
caratteristiche di una visita in
casa di amici che in una scuola
statale. Per fare in modo che
non solo la bimba, ma anch’io mi
trovassi a mio agio, la preside
inviava in quell’aula anche
insegnanti che non avrebbero
avuto a che fare con Antonella,
ma che mi conoscevano per i
motivi più diversi:
vicine di casa, mogli di
colleghi, figlie e nipoti di ex
pazienti dell’ospedale eccetera.
Tutte le regole
dell’ospitalità venivano
rispettate, compresa la
degustazione del caffè.
Alle
elementari Antonella aveva avuto
delle insegnanti comunali che
aveva molto amato e che erano
diventate le sue preferite , per
cui considerava la qualifica di
comunale come sinonimo di alta
professionalità e
simpatia. Con queste premesse
chiedeva alle sue future
insegnanti se erano comunali o
statali. Queste, edotte delle
sue preferenze, le rispondevano
che erano tutte comunali, bugia
alla quale non ha creduto,
mentre ha subito capito chi era
comunale davvero e chi per finta
per cui, parafrasando Orwell, ha
proclamato una delle sue frasi
storiche:” Tutte le insegnanti
delle Leopardi sono comunali, ma
la Laura è
comunalissima”, e la Laura era
realmente comunale e, fedele
alla tradizione, è subito
diventata la sua preferita.
Quando
è giunto settembre,
l’ingresso alla nuova scuola non
ha avuto nulla di
traumatizzante. Le insegnanti
già conoscevano Antonella
e viceversa. Erano pronte a
cogliere ogni suo sospiro, a
proporle la socializzazione
quando il suo umore lo
consentiva, l’ambiente
silenzioso per il lavoro
individuale o per il
rilassamento quando lo stato di
agitazione sconsigliava
stimolazioni eccessive,
un’attività ginnica
anzichè
un’attività intellettuale
quando l’esercizio fisico pareva
utile per scaricare i nervi,
un’uscita fuori dalla scuola
quando pareva recettiva per le
opportunità educative che
tale attività poteva
offrire.
Lo
scambio tra scuola e famiglia
avveniva in modo naturale e
amichevole: mediante incontri
programmati, per telefono e per
strada all’entrata e all’uscita
dalla scuola. Ogni scoperta ed
ogni conquista fatta a casa
veniva prontamente comunicata a
scuola e viceversa.
Sia
io che le insegnanti avevamo
sentito parlare dell’uso del
computer a fini abilitativi, ma
nessuna di noi aveva fatto i
primi passi informatici e questo
per diversi motivi, in parte
legati a noi stesse in quanto,
non più giovanissime, ci
sentivamo inadeguate e avevamo
una sorta di sacro terrore del
mostro informatico; in parte
perchè, non avendo
Antonella mai manifestato
interesse nè per la TV
nè per il gioco,
pensavamo che, essendo il
computer una sintesi delle due
cose, non avrebbe funzionato
L’incontro
casuale
con una vecchia amica di
Università fu
determinante nel farci cambiare
idea. Marina lavorava in un ente
specializzato nell’uso del
computer per la
disabilità. Quando,
incontrandola in casa di amici,
le ho parlato di mia figlia, mi
ha letteralmente costretta ad
andare al suo centro per
prendere visione dei programmi
didattici per l’handicap
mentale. Dopo aver dedicato un
intero pomeriggio a far giocare
Antonella e me col computer, ha
scelto i programmi più
adatti e ne ha fatto un
dischetto che mi ha poi
regalato. Costretta a farlo
più per dare
soddisfazione a Marina che per
reale convinzione, ho cominciato
a giocare con quei programmi
mettendovi tutto l’impegno di
cui ero capace per capire il
meccanismo della macchina in
generale e del gioco in
particolare e lasciando poi il
posto, senza speranza, ad
Antonella la quale, davanti ai
miei occhi increduli, ha
cominciato a muoversi sul
computer con una disinvoltura
molto maggiore della mia e,
incredibile a dirsi, ci prendeva
gusto, si divertiva, veniva
calamitata dal gioco in modo
simile a quanto vedevo fare da
tanti altri ragazzini. Lei, che
non aveva mai degnato di uno
sguardo il televisore, che non
aveva mai provato interesse per
nessun gioco, sin dal primo
giorno è rimasta
attaccata al computer per ore e,
in un periodo di ottimo
appetito, ha accolto con
insofferenza il momento della
merenda che la staccava dalla
nuova conquista. La scoperta era
del tutto eccezionale in quanto
consentiva di passare il tempo
in un modo alternativo alle
stereotipie e alle ossessioni e
per di più imparando e
affinando le capacità di
lettura, scrittura,
comprensione, logica e
matematica. Questo pomeriggio
storico è stato subito
seguito da una telefonata
trionfale all’insegnante Ornella
che, come me, aveva sempre
guardato a questo oggetto con
timore e tremore ma, a seguito
della mia entusiastica
segnalazione, ha subito
accettato che i programmi
venissero impiantati anche a
scuola e che io passassi una
mattina ad insegnarle quanto
avevo da poco appreso, facendola
armeggiare con la tastiera e col
mouse, oggetti che entrambe
maneggiavamo con impaccio,
soggezione e paura, tutti
sentimenti finalmente superati
dalla nuova fortissima
motivazione: avere uno strumento
utile alla nostra Antonella.
Così, superando in un
colpo solo le remore che per
anni ci avevano fatto vivere in
mezzo a decine di computer
ignorandoli totalmente, abbiamo
fatto insieme i primi passi che
hanno consentito anche alle
insegnanti di constatare
incantate il potere magnetico
dei giochi didattici e di avere
a disposizione uno strumento
prezioso per passare utilmente
alcune ore di scuola.
Con
piacere ho poi appreso che i
programmi di lettura e scrittura
del computer le hanno aiutate
anche per l’insegnamento ai non
pochi scolari stranieri che
cominciavano ad affollare le
scuole della nostra città
in quegli anni in cui l’Italia
diventava meta sempre più
frequente di immigrazione dai
paesi più disparati.
Un’altra
impresa
educativa che abbiamo intrapreso
insieme è stata
l’elaborazione delle regole di
vita.
Nella
letteratura di educazione
speciale sull’autismo avevo
letto che può essere
utile supplire alle carenze di
sensibilità sociale con
norme di comportamento che sono
ovvie per le persone normali, ma
che devono e possono essere
insegnate ai soggetti come
Antonella per mimare un
comportamento normale, che non
viene affatto spontaneo, ma che
può essere in qualche
misura appreso. Così
abbiamo cominciato in casa a
fare una specie di decalogo
personalizzato sulle stranezze
di Antonella, prima fra tutte
quella di parlare mentre gli
altri parlano ignorandoli e
seguendo un suo filo di pensiero
parallelo. Per contrastare
questo comportamento anomalo
ecco il primo comandamento, che
poi tutti hanno trovato profondo
e valido anche per molte persone
cosiddette “normali”: “Non
parlare quando gli altri parlano
e ascoltare”. Il secondo
comandamento nasce per
correggere una gestualità
scoordinata e talora fastidiosa
di Antonella, che tende a
stringere gli altri, a prenderli
per il collo o comunque a
toccarli in modo fastidioso, da
cui la regola: “Non mettere le
mani addosso”
La
terza, la quarta, la quinta, la
sesta e la settima regola
nascono, al pari della prima,
dall’esigenza di regolamentare
la conversazione, che deve avere
dei ritmi, delle pause, delle
variazioni di argomento, dei
turni da rispettare e degli
interlocutori di cui tener
conto, da cui: “Numero 3: Non
ripetere le stesse cose”,
“Numero 4 Rispondere alle
domande”, Numero 5 “Non parlare
quando si lavora”, Numero 6
“Salutare le persone che
incontri e non continuare con
l’argomento di cui stavi
parlando prima”; Numero 7 “Non
parlare agli sconosciuti” La 8
riguarda un problema legato al
nostro particolare mezzo di
spostamento, che consiste
nell’usare la bicicletta come
fosse un taxi, io davanti e
Antonella dietro in un comodo
seggiolino da cui può
appoggiare i piedi sui pedalini,
cosa già anomala per una
passeggera di 50 Kili, e
particolarmente rischiosa quando
la passeggera comincia a ballare
il twist, da cui la regola
numero 8: “Non muoversi in
bicicletta” La 9 riguarda di
nuovo la gestualità,
nella fattispecie le
stereotipie, la più
frequente delle quali è
quella di battersi le mani sui
denti per minuti, ore, giorni,
da cui: “regola numero 9: non
battere le mani sui denti” e con
la numero 10 si entra nelle
profondità filosofiche
“Non pensare continuamente al
futuro”, nata dal fatto che
spesso Antonella voleva sapere
in tutti i minimi particolari
come si sarebbe svolta la vita
alla resurrezione e la
curiosità diventava
ossessiva e angosciosa.
Antonella stessa citava le
regole a scuola e talvolta lei
stessa riusciva a moderare gli
eccessi comportamentali grazie
al richiamo delle regole che via
via trasgrediva. Le insegnanti,
ponendosi come sempre in
sintonia con quanto veniva da
casa, hanno pensato non solo di
farne oggetto del lavoro
scolastico, ma anche di
coinvolgere l’insegnante di
disegno, che per ogni regola ha
fatto una deliziosa vignetta con
una ragazzina dai capelli rossi
che viene rappresentata mentre
trasgredisce ogni singola
regola. Con il decalogo scritto
e disegnato con arte e humor
è stato fatto un
bellissimo quadernone a colori,
cui hanno fatto seguito altri
quaderni a fumetti nei quali
venivano create varie storielle
di cui Antonella era
protagonista mentre trasgrediva
o rispettava le diverse regole.
Un’altra
scoperta
che ci ha mandato in visibilio
è stata la constatazione
che, se le poesie venivano
recitate in un’occasione che
dava spunto al tema delle stesse
anzichè a freddo in modo
programmato, Antonella le
apprezzava, le capiva e le
gustava, al punto da cambiarle
in modo appropriato per
riferirle e se stessa. Una di
queste poesie è stata “Il
passero solitario” di cui
abbiamo parlato in un momento in
cui ricordavamo la scuola
materna, quando lei evitava con
tutte le sue forze la compagnia
degli altri bambini. La
citazione veniva a pennello e
con questo tipo d’insegnamento,
che nei testi è definito
incidentale, lei non solo capiva
e gustava la poesia, ma poi la
cambiava riferendola alla sua
situazione attuale
caratterizzata dal desiderio,
anche se disgiunto dalla
competenza, di stare con i
coetanei, da cui ;”Sì
compagni, sì voli; mi cal
d’allegria, cerco gli spassi”
Questo discorso, iniziato a
casa, veniva continuato e
approfondito a scuola dalle
insegnanti che si trovavano
finalmente nel terreno a loro
più famigliare: quello
della poesia e delle belle
lettere.
Fin
dai primi giorni delle medie mi
è venuta l’idea,
condivisa da mio marito, di
stare in questo ambiente
più unico che raro il
più a lungo possibile,
cosa resa possibile fino alla
durata di sei anni sfruttando le
bocciature. Le insegnanti e la
preside hanno subito accettato
la nostra proposta per cui la
prima bocciatura è venuta
senza problemi.
Le
cose sono drasticamente cambiate
al terzo anno di scuola, quando
Antonella era alla prima delle
programmate due seconde medie,
in quanto la preside Mari era
andata in pensione ed era stata
sostituita dalla professoressa
Turchi la quale, portando
argomentazioni che potevano
valere per altre situazioni ma
non per la nostra, si opponeva
energicamente alla bocciatura,
che Antonella invece aveva da
subito preso per quello che era:
un segno d’affetto da parte
delle insegnanti.
Allo
scrutinio di fine anno si
è svolta una battaglia
all’ultimo sangue tra la preside
da una parte e tutti gli altri
insegnanti dall’altra, che hanno
avuto il coraggio di
contrastarla uniti mettendola in
minoranza, da cui la telefonata
trionfale dell’insegnante
Ornella che ci ha subito
comunicato l’esito:”Abbiamo
vinto!” il chè
significava “Abbiamo ottenuto la
bocciatura” cosa che confondeva
un po’ le idee alla nostra
Antonella, che vedeva accolte in
tal modo le sue bocciature e in
modo ben diverso quelle, a dire
il vero rare, del fratello
maggiore che frequentava con
successo l’università
Giunti
in terza media io avevo
finalmente il potere di farla
bocciare non portandola
all’esame ed evitando quindi il
rischio della promozione e anche
il ripetersi della delicata
situazione che aveva visto le
insegnanti in una imbarazzante
conflittualità con la
preside. Ma a scalfire la mia
certezza è arrivata la
telefonata che mi avvertiva
sull’eventualità dei
carabinieri e così, dopo
una vita passata nella
più scialba
legalità, tra casa,
chiesa, scuola e lavoro,
all’età di cinquant’anni
ho provato l’emozione, in quella
interminabile mattina di giugno,
di sentirmi fuori legge e di
essere ricercata dai
carabinieri.
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