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(materiali)

(di Marilena Masiero con la prefazione di Daniela Mariani Cerati)


3) Dopo la scuola il nulla?





Scuola e Inclusione

1) La Scuola inclusiva secondo Massimo Antonucci, docente di sostegno in un Liceo e allievo del compianto Andrea Canevaro [ vai al documento ]

Graziella Roda* ha esaminato il nuovo Piano Educativo Personalizzato (PEI) con una serie di approfondimenti riguardanti non solo il PEI in quanto tale, ma anche  il contesto nel quale il PEI deve essere compilato e soprattutto applicato.

Ritenendo questo materiale, frutto di una vita di studio e di esperienza sul campo, prezioso e meritevole di un’ampia platea, pubblichiamo i contributi apparsi nella lista "autismo-scuola" ad esso dedicati"

Come sapete, però, il 31 dicembre 2020 è stato pubblicato il decreto  182/2020 che riporta, tra le altre cose, le linee guida concernenti la definizione delle modalità, anche tenuto conto dell'accertamento di cui all'articolo 4 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, per l'assegnazione delle misure di sostegno di cui all’articolo 7 del D.Lgs 66/2017 e il modello di PEI, da adottare da parte delle istituzioni scolastiche.La lunga disamina del decreto fatta dalla Dottoressa Roda contiene considerazioni pedagogiche che vanno oltre il contenuto del decreto e pertanto le lasciamo e invitiamo a leggerle e meditarle.

Pubblichiamo la mail con la quale Graziella annuncia l’annullamento del decreto, eccola:

"Come ormai si sa, il TAR del Lazio, con sentenza n.9795 del 14 settembre 2021 ha annullato in toto il Decreto interministeriale n.182 del 2020 (e allegati); il decreto riguardava i nuovi modelli nazionali di PEI.
Per fornire le prime indicazioni alle scuole, visto che l'anno scolastico è avviato, il Ministero Istruzione ha emanato la nota prot.2044 del 17 settembre 2021, nella quale si ricorda che la normativa di riferimento (e cioè il Decreto Legislativo n.66/2017 come modificato dal successivo decreto legislativo n.96/2019 è vigente, per cui si prosegue con le modalità seguite fino allo scorso anno.
Inserisco due dei numerosi link dai quali si può scaricare sia il testo della sentenza sia la nota ministeriale sopra citate:
e

Qui di seguito gli approfondimenti precedentemente pubblicati:
* Graziella Rosa, pedagogista con esperienza pluridecennale di docente di scuola primaria, ha fatto un’analisi critica di tale decreto, che ora il TAR del Lazio, con sentenza n.9795 del 14 settembre 2021, ha annullato in toto.


Storia dell'inclusione scolastica

2) Anni fa ho conosciuto Antonio Guidi, molto prima che diventasse ministro per la famiglia e la solidarietà sociale.

https://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_Guidi_(politico)#:~:text=Antonio%20Guidi%20(Roma%2C%2013%20giugno,sociale%20nel%20governo%20Berlusconi%20I.

Era neuropsichiatra infantile, impegnato nel rapporto con la scuola per quanto riguardava gli alunni certificati. Essendo nato nel 1945 ed essendo affetto da tetraparesi spastica, non era stato ammesso a nessuna scuola fino al liceo, quando fu accettato in un liceo privato.

Essendo una persona intelligente e comunicativa, mi chiedevo quale crudeltà portasse i nati nel 45 ad essere esclusi dalla scuola di tutti.

Ma le leggi di allora tenevano ben distinte le scuole speciali dalle scuole normali.

Nel suo caso la disabilità era solo motoria, disabilità per la quale basta togliere le barriere architettoniche e tutto viene risolto.

Più complesso è il caso della disabilità intellettiva e dei disturbi del comportamento.

Qui non si tratta di mettere degli scivoli e degli ascensori, ma di imparare quelle strategie di insegnamento che si possano adattare al proprio allievo disabile, così come un vestito viene fatto su misura dal sarto e non comprato al supermercato.

Anche se ancora vi sono luci ed ombre, il ricordo della segregazione di qualche decennio fa deve renderci orgogliosi della strada fatta verso l’inclusione scolastica.

Per ripercorrerla ho chiesto di darcene un resoconto ad una maestra elementare, Marilena Masiero, che ha iniziato la sua carriera nel 1969, quando ancora c’erano le scuole speciali e che ha poi vissuto in prima persona le ripercussioni delle leggi sul proprio lavoro

Daniela Mariani Cerati


Cara Daniela,

ho parlato a lungo con una collega che ha speso tutta la sua vita lavorativa come insegnante di sostegno ed ha visto quindi svilupparsi nel tempo tutta l’ evoluzione delle leggi, disposizioni, normative a tutela dei bambini diversamente abili.

Personalmente io ho cominciato a insegnare nel lontano 1969 quando c’erano ancora le classi differenziali e le scuole speciali. Vale a dire quando nel “calderone” c’erano tutti i bambini svantaggiati senza distinzione fra autistici, Down, ecc…

Le insegnanti al termine delle lezioni assicuravano che alla fine sarebbero diventate speciali anche loro!

Bisognò aspettare il 1971 con la legge 118 che all’art 28 stabiliva che l’istruzione dell’obbligo doveva avvenire nelle scuole normali della scuola pubblica.

Ci furono allora i primi inserimenti di questi bambini all’interno della classe “normale”, ma noi insegnanti eravamo disarmate, letteralmente disarmate, senza alcun tipo di preparazione specifica.

Pienamente consapevoli delle nostre carenze, ognuna di noi cercava di documentarsi al meglio, ricorrendo ai trattati di pedagogia, metodologia e psicologia degli autori più accreditati per cercare di capire la differenza tra i vari tipi di handicap ed il modo migliore per approcciarci con i nostri alunni più sfortunati.

Il Ministero dell’Istruzione probabilmente faceva affidamento sulla nostra buona volontà, sulla speranza che prima o poi un modo per integrarli all’interno della classe l’avremmo trovato, ma i risultati chiaramente lasciarono molto a desiderare.

Fu la legge 517 del 1977 che introdusse finalmente la figura di un insegnante specializzato per le attività di sostegno. Legge che stabiliva anche con chiarezza gli strumenti e le finalità per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità.

Il progetto si sarebbe attuato con la presa in carico dell’intero Consiglio di Classe.

Finalmente una risorsa in più per l’insegnante di classe che si vedeva affiancare un / una collega con cui condividere il piano di lavoro concordato e mirato all’integrazione del bambino disabile.

In teoria le finalità della 517 erano molto valide, in pratica purtroppo non sempre risultarono tali, perché l’accordo tra le maestre non era scontato. L’insegnante di classe in alcuni casi si riteneva di serie A mentre relegava alla serie B la collega di sostegno. Se non c’era un’intesa di fondo nel modo di svolgere la didattica ora l’una, ora l’altra si sentiva giudicata e non sempre il giudizio era favorevole. Inoltre il bambino / a diversamente abile a volte disturbava il normale svolgimento delle attività con i suoi modi ed atteggiamenti incontrollati e per questo veniva facilmente allontanato / a dalla classe.

Con questi presupposti non veniva certo garantita la continuità didattica negli anni successivi.

Ci furono però molti casi, nonostante tutto, in cui tra le insegnanti c’era una buona intesa e comunità di intenti per cui i risultati furono decisamente soddisfacenti.

E’ però la legge 104/92 che raccoglie ed integra tutti gli interventi legislativi promulgati dopo la 517/77 che diviene il punto di riferimento normativo dell’integrazione scolastica, quando cioè viene fissata per ogni alunno/a diversamente abile la certificazione elaborata dall’U.S.L. e viene realizzato il P.E.I. (Piano educativo individualizzato) in cui si delineano le caratteristiche fisiche, tecniche, sociali ed affettive dell’alunno, mettendo in rilievo le sue difficoltà di apprendimento ma anche le sue possibilità di recupero. Il P.E.I. si avvale, oltre che degli operatori dell’U.S.L e degli apporti degli insegnanti di classe e di sostegno. anche del personale specializzato della scuola e della collaborazione dello scolaro/a e della sua famiglia. Il profilo aggiornato seguirà lo studente per tutto il percorso scolastico, dalla materna alla media e periodicamente alla scuola superiore.

Con questa legge ormai non si parlava più fortunatamente solo di inserimento ed anche il termine “integrazione” assumeva un altro significato perché non era più l’alunno/a disabile, pur seguito dall’insegnate di sostegno, che doveva adattarsi alla classe, alla programmazione delle materie curricolari, ai ritmi di apprendimento stabiliti ma era tutto il personale docente e non docente che doveva cercare le strategie per far emergere nell’alunno/a tutte le sue possibilità di recupero, tutte le sue capacità individuali che dovevano essere sostenute e rafforzate.

Oggi si parla di “inclusione” ed infatti questo è il termine più appropriato. E l’inclusione dell’alunno diversamente abile per me cominciò allora, con il supporto di “tutte le forze disponibili sul campo”.

La 104 aveva il merito di definire e selezionare al meglio i vari tipi di handicap (Down, autistici ecc…) e questo consentiva la realizzazione di un P.E.I. più mirato e maggiormente finalizzato, ma si sentiva anche la necessità, alla luce di nuove ricerche, studi ed esperienze nel settore handicap, di insegnanti, di sostegno e non, sempre più preparati per portare a termine il difficile compito prefissato.

So che nel 2010 venne promulgata la legge 170 che stabiliva nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento tra i quali la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia (sempre notevoli passi avanti nel settore) ma io ero già in pensione e non più direttamente coinvolta.

So però, come insegnante, quanto sia importante dal punto di vista tecnico la formazione degli insegnanti sia di classe che di sostegno per il raggiungimento di un’unità di intenti e per una collaborazione fattiva per la formazione di bambini/e diversamente abili, ma so anche quanto sia importante l’empatia, la disponibilità, la capacità mettersi sempre in gioco, soprattutto con i bambini/e autistici che hanno così gravi difficoltà ad apprendere, a comunicare, a relazionarsi ed a interagire con gli altri.

Auspico che il cammino accidentato della scuola diventi sempre più agevole con la collaborazione e la disponibilità di tutti.

Marilena Masiero



Dopo la scuola il nulla?

3) Nel settembre 2020 sulla rivista online “Studi e Documenti” dell’Ufficio Scolastico Regionale dell’Emilia Romagna sta scritto

“Capita spesso che nell’imminenza della fine della scuola secondaria di II grado, i dirigenti scolastici e i docenti si sentano chiedere di trattenere gli alunni con disabilità, per dare ancora tempo, perché iragazzi lì si trovano bene, soprattutto perché non si sa cosa faranno dopo”

https://www.istruzioneer.gov.it/wp-content/uploads/2021/02/Quaderni-Autismo-5.pdf

Leggendo queste parole, viene in mente la testimonianza di una mamma raccolta nel libro “Il nostro autismo quotidiano” del 2003

https://www.erickson.it/it/il-nostro-autismo-quotidiano

Lo stralcio che copio dal libro è di lettura agevole, quasi divertente, ma dimostra che la problematica del dopo la scuola presente nel 2003 resta invariata nel 2020 e questo deve stimolare le istituzioni a stilare un progetto di vita di ampio respiro che parta dall’adolescenza e non si fermi alla fine della scuola, ma continui fino all’età adulta, senza rinnegare le scelte di promozione della qualità della vita e di inclusione nella società che sono alla base della legislazione scolastica italiana

WANTED”

“Spicciati! Dobbiamo uscire di casa prima che arrivino i carabinieri!”

Antonella, che aveva quindici anni, era in quel momento di grazia, che si ripete ogni mattina, in cui sembra solo una ragazzina pigra, col bel viso addormentato e un solo grande desiderio: tornare a letto; associato però alla consapevolezza che chi comanda è la mamma e, come ogni giorno, bisogna rassegnarsi al triste destino di alzarsi.

Era totalmente indifferente all’idea dei carabinieri e al motivo per cui era ricercata, mentre io ero tesa, impegnata a portare a termine la missione di far perdere le sue tracce prima delle otto.

Quando, alle sette e tre quarti, siamo riuscite a varcare la porta di casa e ci siamo trovate sulla strada, ho finalmente tirato un sospiro di sollievo: “Siamo fuori pericolo!”.

A questo punto però si poneva un nuovo problema. “Cosa facciamo fuori casa a quest’ora? Dove andiamo?” Passando davanti ad una chiesa, ci siamo entrate, come in altri tempi i condannati in cerca di asilo

Iniziava una messa proprio in quel momento, cosa che mi è sembrata utile al nostro scopo. Ma, trattandosi di un giorno feriale, la messa, senza omelia né altri cerimoniali, alle otto e venti era già finita, troppo presto per andare a casa di Marta e Susanna, le amiche che ci avevano offerto ospitalità purché non arrivassimo troppo presto, dal momento che madre e figlia, rispettivamente insegnante e studentessa, quel giorno non avevano impegni e volevano godersi la giornata di vacanza dormendo per buona parte della mattinata.

Abbiamo quindi girato senza meta per le vie del centro fino alle nove e mezza, quando abbiamo ritenuto che non fosse più scandaloso suonare al campanello delle amiche, che sono venute ad aprirci in camicia da notte con aria più rassegnata che entusiasta.

Eravamo entrambe nuove alla giustizia e in effetti non avevamo né rubato, né danneggiato persone o cose, né ci eravamo macchiate del reato di falso in bilancio o di interesse privato in atto pubblico. In quanto poi dipendenti del pubblico impiego nessuno in famiglia poteva aver compiuto neanche la più piccola evasione fiscale. Volevamo semplicemente essere bocciate per ripetere la terza media e le insegnanti, conniventi, ci avevano telefonato la sera prima consigliandoci di non farci trovare in casa il giorno seguente in quanto, trattandosi della scuola dell’obbligo, la preside avrebbe potuto mandarci a casa i carabinieri per costringere Antonella a presentarsi all’esame ed essere promossa contro la volontà dei genitori.

La lotta per le bocciature, che ha avuto momenti non meno aspri della lotta per le investiture, era iniziata cinque anni prima, quando Antonella aveva iniziato la scuola media.

L’ingresso alle medie era stato preparato con anni di anticipo. L’amica Anna, addetta ai lavori in quanto insegnante, ci aveva caldamente consigliato, fin dalla quarta elementare, la scuola Giacomo Leopardi che, oltre ad essere vicina, si presentava con caratteristiche molto promettenti per accogliere Antonella in modo ottimale.

Si trattava di una scuola per accedere alla quale facevano carte false anche i figli di illustri professori universitari per l’alto livello di preparazione che dava e che faceva poi fare ottime figure alle scuole superiori, ma, merito molto più grande, si era attrezzata, con persone e ambienti, in modo tale da poter accogliere nel modo migliore anche gli allievi meno dotati, compresi i gravissimi, e l’anziana preside era orgogliosa di questo almeno quanto e forse più della caratteristica per la quale la scuola era nota in tutta la città: l’alto livello di preparazione che dava ai normo e ai superdotati.

La cultura della solidarietà e il conseguente impegno per l’integrazione era profondamente sentito e interiorizzato da tutto il personale e si rifletteva, come in uno specchio, negli studenti e nei genitori, ma a questa virtù, non rara nella nostra città, si univa un sano realismo. La saggia preside, anziana insegnante di matematica, Signorina Mari, che amava presentarsi come “Signorina” quasi a sottolineare il suo impegno e il suo amore senza rivali per la scuola, aveva già accolto negli anni precedenti ragazzi gravissimi, compresi cerebropatici impediti nella mente e nel movimento. Pur condividendo l’impulso, simpaticamente diffuso nella nostra regione, ad integrare sempre e comunque, aveva constatato l’impossibilità e la non opportunità a tenere sempre in classe i gravissimi, che, essendo incapaci di seguire le lezioni, si sarebbero annoiati e non avrebbero beneficiato di un insegnamento individuale, finalizzato al raggiungimento di obiettivi utili per la vita adulta, in particolare per l’autonomia personale e per le esigenze primarie della vita quotidiana. Nonostante questo sano realismo, contrapposto alla visione utopistica di sessantottina memoria, non aveva ceduto alla tentazione di fare gruppi di disabili ghettizzandoli; aveva invece creato spazi appositi che venivano utilizzati sia per l’insegnamento individuale, sia per la socializzazione in piccoli gruppi, costituiti dal ragazzo disabile e da qualche normodotato con funzione di tutor e di maestro di socializzazione. A tal fine venivano sfruttate tutte le risorse offerte dalla scuola, compresi gli esoneri dalla religione e dalla ginnastica . Le ore di insegnamento individuale e in piccoli gruppi venivano poi alternate alla presenza in classe per tutto il tempo utile e tollerabile per il ragazzo disabile. Nell’ala della scuola destinata a questo tipo d’insegnamento c’era anche una cucina, spaziosa e luminosa, che poteva servire ad una doppia funzione: far lavorare Antonella esercitandola in esercizi manuali finalizzati alla preparazione di cibo e farle consumare a scuola il pranzo, con la doppia finalità di sfruttare l’opportunità educativa insita nell’attività di pranzare in compagnia dell’insegnante e di permettere a noi genitori di andarla a prendere alle due anzichè all’una, ora in cui entrambi eravamo ancora al lavoro.

Sfruttando il fatto che Antonella frequentava la scuola elementare a tempo pieno e aveva il sabato libero, la preside ci aveva proposto di frequentare la scuola Leopardi il sabato mattina già dalla quinta elementare, in modo da famigliarizzarci con l’ambiente e con le future insegnanti. Questa frequenza del sabato aveva più le caratteristiche di una visita in casa di amici che in una scuola statale. Per fare in modo che non solo la bimba, ma anch’io mi trovassi a mio agio, la preside inviava in quell’aula anche insegnanti che non avrebbero avuto a che fare con Antonella, ma che mi conoscevano per i motivi più diversi: vicine di casa, mogli di colleghi, figlie e nipoti di ex pazienti dell’ospedale eccetera. Tutte le regole dell’ospitalità venivano rispettate, compresa la degustazione del caffè.

Alle elementari Antonella aveva avuto delle insegnanti comunali che aveva molto amato e che erano diventate le sue preferite , per cui considerava la qualifica di comunale come sinonimo di alta professionalità e simpatia. Con queste premesse chiedeva alle sue future insegnanti se erano comunali o statali. Queste, edotte delle sue preferenze, le rispondevano che erano tutte comunali, bugia alla quale non ha creduto, mentre ha subito capito chi era comunale davvero e chi per finta per cui, parafrasando Orwell, ha proclamato una delle sue frasi storiche:” Tutte le insegnanti delle Leopardi sono comunali, ma la Laura è comunalissima”, e la Laura era realmente comunale e, fedele alla tradizione, è subito diventata la sua preferita.

Quando è giunto settembre, l’ingresso alla nuova scuola non ha avuto nulla di traumatizzante. Le insegnanti già conoscevano Antonella e viceversa. Erano pronte a cogliere ogni suo sospiro, a proporle la socializzazione quando il suo umore lo consentiva, l’ambiente silenzioso per il lavoro individuale o per il rilassamento quando lo stato di agitazione sconsigliava stimolazioni eccessive, un’attività ginnica anzichè un’attività intellettuale quando l’esercizio fisico pareva utile per scaricare i nervi, un’uscita fuori dalla scuola quando pareva recettiva per le opportunità educative che tale attività poteva offrire.

Lo scambio tra scuola e famiglia avveniva in modo naturale e amichevole: mediante incontri programmati, per telefono e per strada all’entrata e all’uscita dalla scuola. Ogni scoperta ed ogni conquista fatta a casa veniva prontamente comunicata a scuola e viceversa.

Sia io che le insegnanti avevamo sentito parlare dell’uso del computer a fini abilitativi, ma nessuna di noi aveva fatto i primi passi informatici e questo per diversi motivi, in parte legati a noi stesse in quanto, non più giovanissime, ci sentivamo inadeguate e avevamo una sorta di sacro terrore del mostro informatico; in parte perchè, non avendo Antonella mai manifestato interesse nè per la TV nè per il gioco, pensavamo che, essendo il computer una sintesi delle due cose, non avrebbe funzionato

L’incontro casuale con una vecchia amica di Università fu determinante nel farci cambiare idea. Marina lavorava in un ente specializzato nell’uso del computer per la disabilità. Quando, incontrandola in casa di amici, le ho parlato di mia figlia, mi ha letteralmente costretta ad andare al suo centro per prendere visione dei programmi didattici per l’handicap mentale. Dopo aver dedicato un intero pomeriggio a far giocare Antonella e me col computer, ha scelto i programmi più adatti e ne ha fatto un dischetto che mi ha poi regalato. Costretta a farlo più per dare soddisfazione a Marina che per reale convinzione, ho cominciato a giocare con quei programmi mettendovi tutto l’impegno di cui ero capace per capire il meccanismo della macchina in generale e del gioco in particolare e lasciando poi il posto, senza speranza, ad Antonella la quale, davanti ai miei occhi increduli, ha cominciato a muoversi sul computer con una disinvoltura molto maggiore della mia e, incredibile a dirsi, ci prendeva gusto, si divertiva, veniva calamitata dal gioco in modo simile a quanto vedevo fare da tanti altri ragazzini. Lei, che non aveva mai degnato di uno sguardo il televisore, che non aveva mai provato interesse per nessun gioco, sin dal primo giorno è rimasta attaccata al computer per ore e, in un periodo di ottimo appetito, ha accolto con insofferenza il momento della merenda che la staccava dalla nuova conquista. La scoperta era del tutto eccezionale in quanto consentiva di passare il tempo in un modo alternativo alle stereotipie e alle ossessioni e per di più imparando e affinando le capacità di lettura, scrittura, comprensione, logica e matematica. Questo pomeriggio storico è stato subito seguito da una telefonata trionfale all’insegnante Ornella che, come me, aveva sempre guardato a questo oggetto con timore e tremore ma, a seguito della mia entusiastica segnalazione, ha subito accettato che i programmi venissero impiantati anche a scuola e che io passassi una mattina ad insegnarle quanto avevo da poco appreso, facendola armeggiare con la tastiera e col mouse, oggetti che entrambe maneggiavamo con impaccio, soggezione e paura, tutti sentimenti finalmente superati dalla nuova fortissima motivazione: avere uno strumento utile alla nostra Antonella. Così, superando in un colpo solo le remore che per anni ci avevano fatto vivere in mezzo a decine di computer ignorandoli totalmente, abbiamo fatto insieme i primi passi che hanno consentito anche alle insegnanti di constatare incantate il potere magnetico dei giochi didattici e di avere a disposizione uno strumento prezioso per passare utilmente alcune ore di scuola.

Con piacere ho poi appreso che i programmi di lettura e scrittura del computer le hanno aiutate anche per l’insegnamento ai non pochi scolari stranieri che cominciavano ad affollare le scuole della nostra città in quegli anni in cui l’Italia diventava meta sempre più frequente di immigrazione dai paesi più disparati.

Un’altra impresa educativa che abbiamo intrapreso insieme è stata l’elaborazione delle regole di vita.

Nella letteratura di educazione speciale sull’autismo avevo letto che può essere utile supplire alle carenze di sensibilità sociale con norme di comportamento che sono ovvie per le persone normali, ma che devono e possono essere insegnate ai soggetti come Antonella per mimare un comportamento normale, che non viene affatto spontaneo, ma che può essere in qualche misura appreso. Così abbiamo cominciato in casa a fare una specie di decalogo personalizzato sulle stranezze di Antonella, prima fra tutte quella di parlare mentre gli altri parlano ignorandoli e seguendo un suo filo di pensiero parallelo. Per contrastare questo comportamento anomalo ecco il primo comandamento, che poi tutti hanno trovato profondo e valido anche per molte persone cosiddette “normali”: “Non parlare quando gli altri parlano e ascoltare”. Il secondo comandamento nasce per correggere una gestualità scoordinata e talora fastidiosa di Antonella, che tende a stringere gli altri, a prenderli per il collo o comunque a toccarli in modo fastidioso, da cui la regola: “Non mettere le mani addosso”

La terza, la quarta, la quinta, la sesta e la settima regola nascono, al pari della prima, dall’esigenza di regolamentare la conversazione, che deve avere dei ritmi, delle pause, delle variazioni di argomento, dei turni da rispettare e degli interlocutori di cui tener conto, da cui: “Numero 3: Non ripetere le stesse cose”, “Numero 4 Rispondere alle domande”, Numero 5 “Non parlare quando si lavora”, Numero 6 “Salutare le persone che incontri e non continuare con l’argomento di cui stavi parlando prima”; Numero 7 “Non parlare agli sconosciuti” La 8 riguarda un problema legato al nostro particolare mezzo di spostamento, che consiste nell’usare la bicicletta come fosse un taxi, io davanti e Antonella dietro in un comodo seggiolino da cui può appoggiare i piedi sui pedalini, cosa già anomala per una passeggera di 50 Kili, e particolarmente rischiosa quando la passeggera comincia a ballare il twist, da cui la regola numero 8: “Non muoversi in bicicletta” La 9 riguarda di nuovo la gestualità, nella fattispecie le stereotipie, la più frequente delle quali è quella di battersi le mani sui denti per minuti, ore, giorni, da cui: “regola numero 9: non battere le mani sui denti” e con la numero 10 si entra nelle profondità filosofiche “Non pensare continuamente al futuro”, nata dal fatto che spesso Antonella voleva sapere in tutti i minimi particolari come si sarebbe svolta la vita alla resurrezione e la curiosità diventava ossessiva e angosciosa. Antonella stessa citava le regole a scuola e talvolta lei stessa riusciva a moderare gli eccessi comportamentali grazie al richiamo delle regole che via via trasgrediva. Le insegnanti, ponendosi come sempre in sintonia con quanto veniva da casa, hanno pensato non solo di farne oggetto del lavoro scolastico, ma anche di coinvolgere l’insegnante di disegno, che per ogni regola ha fatto una deliziosa vignetta con una ragazzina dai capelli rossi che viene rappresentata mentre trasgredisce ogni singola regola. Con il decalogo scritto e disegnato con arte e humor è stato fatto un bellissimo quadernone a colori, cui hanno fatto seguito altri quaderni a fumetti nei quali venivano create varie storielle di cui Antonella era protagonista mentre trasgrediva o rispettava le diverse regole.

Un’altra scoperta che ci ha mandato in visibilio è stata la constatazione che, se le poesie venivano recitate in un’occasione che dava spunto al tema delle stesse anzichè a freddo in modo programmato, Antonella le apprezzava, le capiva e le gustava, al punto da cambiarle in modo appropriato per riferirle e se stessa. Una di queste poesie è stata “Il passero solitario” di cui abbiamo parlato in un momento in cui ricordavamo la scuola materna, quando lei evitava con tutte le sue forze la compagnia degli altri bambini. La citazione veniva a pennello e con questo tipo d’insegnamento, che nei testi è definito incidentale, lei non solo capiva e gustava la poesia, ma poi la cambiava riferendola alla sua situazione attuale caratterizzata dal desiderio, anche se disgiunto dalla competenza, di stare con i coetanei, da cui ;”Sì compagni, sì voli; mi cal d’allegria, cerco gli spassi” Questo discorso, iniziato a casa, veniva continuato e approfondito a scuola dalle insegnanti che si trovavano finalmente nel terreno a loro più famigliare: quello della poesia e delle belle lettere.

Fin dai primi giorni delle medie mi è venuta l’idea, condivisa da mio marito, di stare in questo ambiente più unico che raro il più a lungo possibile, cosa resa possibile fino alla durata di sei anni sfruttando le bocciature. Le insegnanti e la preside hanno subito accettato la nostra proposta per cui la prima bocciatura è venuta senza problemi.

Le cose sono drasticamente cambiate al terzo anno di scuola, quando Antonella era alla prima delle programmate due seconde medie, in quanto la preside Mari era andata in pensione ed era stata sostituita dalla professoressa Turchi la quale, portando argomentazioni che potevano valere per altre situazioni ma non per la nostra, si opponeva energicamente alla bocciatura, che Antonella invece aveva da subito preso per quello che era: un segno d’affetto da parte delle insegnanti.

Allo scrutinio di fine anno si è svolta una battaglia all’ultimo sangue tra la preside da una parte e tutti gli altri insegnanti dall’altra, che hanno avuto il coraggio di contrastarla uniti mettendola in minoranza, da cui la telefonata trionfale dell’insegnante Ornella che ci ha subito comunicato l’esito:”Abbiamo vinto!” il chè significava “Abbiamo ottenuto la bocciatura” cosa che confondeva un po’ le idee alla nostra Antonella, che vedeva accolte in tal modo le sue bocciature e in modo ben diverso quelle, a dire il vero rare, del fratello maggiore che frequentava con successo l’università

Giunti in terza media io avevo finalmente il potere di farla bocciare non portandola all’esame ed evitando quindi il rischio della promozione e anche il ripetersi della delicata situazione che aveva visto le insegnanti in una imbarazzante conflittualità con la preside. Ma a scalfire la mia certezza è arrivata la telefonata che mi avvertiva sull’eventualità dei carabinieri e così, dopo una vita passata nella più scialba legalità, tra casa, chiesa, scuola e lavoro, all’età di cinquant’anni ho provato l’emozione, in quella interminabile mattina di giugno, di sentirmi fuori legge e di essere ricercata dai carabinieri.

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