Il
lavoro come proseguimento dell’integrazione
scolastica: il caso dell’autismo
Daniela Mariani
Cerati
gi� dirigente medico SSN
segretaria del Comitato Scientifico dell’ANGSA
A partire dagli anni ’70 sempre pi�
la funzione della scuola si � andata sganciando da quella
classica dell’imparare a leggere, scrivere e far di conto.
Accogliendo bambini sempre pi� gravi e poco propensi ad
acquisire le tradizionali nozioni scolastiche, la scuola �
diventata sempre pi� scuola di vita e di socializzazione,
aperta anche a chi non avrebbe mai imparato a leggere e scrivere.
E’
cos� maturata una nuova
filosofia e un nuovo stile formativo: un insegnamento personalizzato,
adattato come un vestito su misura agli specifici bisogni educativi
di ogni scolaro. Questa logica, portata con forza nella scuola dalla
presenza di bambini disabili, � poi andata a vantaggio di
tutti. Questo per diversi motivi: l’attenzione alle esigenze
educative di ogni singolo studente � un concetto valido per
tutti e l’abitudine a ragionare in questo modo per il disabile
porta poi ad una maggiore sensibilit� anche nei confronti di
ogni singolo bambino; in secondo luogo, ci si rende conto che avere
un bambino disabile diventa un’opportunit� educativa a tutto
campo per tutti i compagni, se la situazione viene sfruttata al
meglio da insegnanti motivati e competenti.
Le
leggi italiane sull’integrazione
hanno superato, per spirito di apertura e accoglienza, tutti gli
altri paesi.
Ma i
bimbi crescono e, nella maggior
parte dei casi, la disabilit� rimane: se il luogo naturale
dove un bambino incontra i coetanei � la scuola, in et�
adulta alla scuola dovrebbe sostituirsi un posto di lavoro.
Vediamo
cosa avviene in Italia per
una categoria particolarmente sfortunata di disabili: gli autistici.
Nelle parole di
Francesco Campagna “I bambini di cui ci si � occupati con tanto impegno
crescendo sembrano sparire non solo negli interessi degli studiosi,
ma anche dal contesto sociale. Mantenere l’ottica dell’approccio
riabilitativo tradizionale che si pone come obiettivo quello della
guarigione rende inefficace qualsiasi intervento poich� questo
obiettivo � irraggiungibile. Tale constatazione porta spesso
alla totale rinuncia a qualunque trattamento e l’intervento si
riduce ad una semplice assistenza”
Gli
autistici hanno una grave
compromissione della qualit� della vita, ma non della sua
lunghezza, per cui occuparsi delle varie fasi della vita e non solo
dell’infanzia dovrebbe essere cosa logica e doverosa, ma, come dice
Campagna, essi scompaiono dagli interessi di tutti: studiosi e
operatori sociali. Pochi sono i ricercatori che hanno compiuto studi
epidemiologici sugli autistici in et� adulta in Italia. Uno di
questi � Stefano Palazzi che ha cercato, con non poca
fatica, di identificare gli autistici adulti presenti nella regione
Lombardia alla fine degli anni ‘90.
La situazione descritta
al 4 giugno 1999 ( www.autismo.it) per gli adulti autistici � la seguente: un terzo si
trova in
istituti assistenziali, dove l’inserimento lavorativo � di
livello zero, ovvero inesistente. Questi soggetti non hanno
sviluppato nessuna abilit�, non possiedono nessuna autonomia
e sono incapaci di qualunque forma di socializzazione
I
restanti due terzi sono inseriti
nei centri socioeducativi e riabilitativi e nelle comunit�
agricole. L’autore chiama questo inserimento lavorativo di livello
primo e i soggetti che ne fanno parte sono caratterizzati da grave
ritardo e gravi comportamenti problema.
Nessuno
degli autistici adulti
identificati nello studio di Palazzi aveva un inserimento di livello
superiore, ovvero un’attivit� sicura in un centro di
formazione professionale , o un’attivit� supportata, come
quella di una borsa lavoro o, tanto meno, un’attivit�
produttiva a livello competitivo sul mercato, pur con un’assunzione
protetta.
A
conclusione del suo studio Palazzi
afferma: “Dei 145 casi adulti di cui si hanno dati sufficienti, la
stragrande maggioranza � di livello funzionale tragico per
tutte le mansioni della socialit� e dell’autonomia”
Questa
situazione �
ascrivibile in primo luogo alla gravit� della patologia, che
si nasconde all’osservatore in et� infantile, quando il
bambino si presenta bello, senza difetti fisici, con lo sguardo
vagamente assente ma apparentemente assorto in pensieri profondi,
mentre diventa evidente in modo inequivocabile in et� adulta.
Volgendo
uno sguardo a livello
internazionale, esistono esempi di autistici che hanno avuto esiti
migliori?
Il programma di Stato
della Carolina del Nord, noto con l’acronimo TEACCH (Treatment and
Education of Autistic and Communication Handicapped Children)
, ha il merito di avere dato, nell’arco di quasi quarant’anni di
attivit�, risultati non trionfali, ma buoni e riproducibili, nel
senso che gli stessi risultati sono stati riprodotti dovunque
l’approccio TEACCH sia stato importato.
Lo
staff di educatori del TEACCH,
sotto la guida illuminata di Eric Schopler, ha iniziato a lavorare
nel 1972 con bambini piccoli, utilizzando un approccio educativo
personalizzato basato su una valutazione, ripetuta nel tempo, del
profilo dei punti di forza e di debolezza di ogni bambino, da cui
emergeva un programma educativo che veniva via via aggiornato nel
corso degli anni, senza soluzione di continuit� tra l’et�
evolutiva e l’et� adulta.
L’orientamento
di questo gruppo �
molto vicino al modo di sentire italiano in quanto vi � sempre
stata fin dall’inizio una grande tensione verso l’integrazione
nella scuola e nella societ� (mainstreaming). Fedeli a questa
premessa, quando la coorte dei bambini seguiti dall’infanzia ha
raggiunto l’et� adolescenziale ed adulta, sono nati, a
partire dal 1989, modelli di integrazione lavorativa adattati alle
caratteristiche peculiari dei singoli soggetti.
Gli
operatori del TEACCH hanno sempre
affermato che, allo stato attuale delle conoscenze, il loro
approccio, che segue l’individuo a tutto campo, trasversalmente e
longitudinalmente, dalla culla alla tomba, non ha mai guarito
nessuno. Il loro sforzo pertanto, che tende ad ottenere quanto oggi
�
possibile, in assenza di terapie risolutive, tende ad adattare il
pi�
possibile l’individuo all’ambiente e l’ambiente all’individuo,
intendendo per ambiente sia quello fisico che quello umano.
Consapevoli
del fatto che il bambino
autistico sar� purtroppo un adulto autistico, ma senza
rinunciare all’ideale dell’integrazione nell’arco della vita,
Schopler e collaboratori consigliano di iniziare precocemente, sin
dall’et� di 10 anni, a cercare di individuare per ogni
soggetto quale attivit� lavorativa potrebbe svolgere da
adulto. Il tipo di attivit� possibile emerge dal profilo di
abilit�, dai punti di forza e dagli interessi, anche
maniacali, di ogni individuo.
Come
logica conseguenza della
valutazione individuale nel programma educativo viene compreso, tra
le altre cose, un precoce addestramento a mansioni lavorative, in
preparazione ad un’attivit� lavorativa nella vita adulta che
prosegua l’integrazione preparata con la scuola.
In
continuit� con quanto
avviene in et� evolutiva la Division TEACCH, che fa parte
dell’Universit� di Chapel Hill e che � finanziata
dallo Stato della Carolina del Nord, � in collegamento con
diverse aziende e realt� lavorative sparse in tutto il suo
bacino di utenza, lo Stato stesso.
La
formula con la quale i soggetti
con autismo vengono inseriti nel lavoro � chiamata “supported
employment” “lavoro supportato” e, a differenza di altre
disabilit�, per le quali il supporto � presente
all’inizio, ma poi scompare, in questo caso il supporto rimane nel
tempo. Un operatore della Division TEACCH, detto “Job coach”, �
presente durante tutto l’orario di lavoro e a tempo indeterminato
con un rapporto fra educatore e utenti che varia da 1:1 per i casi
pi� gravi a 1:15 per i casi meno gravi. Questo � reso
necessario, per i casi a pi� alto funzionamento, dalla
instabilit� del carattere, dalla constatazione realistica che
comportamenti problematici possono verificarsi in modo imprevedibile
per tutti gli autistici e che, pertanto, in assenza di un supporto
costante e disponibile in fretta al bisogno, il lavoro verrebbe
facilmente perso anche in presenza di buone capacit�
lavorative .
Il
livello di supporto da erogare al
singolo individuo emerge dalla valutazione compiuta nel passaggio
dalla scuola al lavoro.
Per i
soggetti pi� dotati vi �
un educatore per ogni 10-15 soggetti . Questi lavorano in modo
indipendente in posti di lavoro tra loro lontani.
All’inizio,
per un periodo di 2- 8
settimane, l’educatore lavora a tempo pieno con l’utente con la
doppia funzione di insegnargli tecnicamente il lavoro e di aiutare i
colleghi a capire ed accettare il nuovo “lavoratore” con le sue
potenzialit� e i suoi limiti.
In
seguito il soggetto rimane solo
con i naturali colleghi e l’educatore viaggia da un’azienda
all’altra per supportare a turno i 10-15 soggetti a lui affidati e
i rispettivi colleghi.
Le
ore settimanali di supporto vanno
da una a sei a seconda del fabbisogno specifico dell’utente, dei
colleghi o di difficolt� intrinseche al lavoro.
Il
livello del supporto pu�
diminuire o aumentare a seconda delle necessit�, che nel
tempo possono cambiare
In
questo modo l’educatore �
in grado di minimizzare o di prevenire i problemi che inevitabilmente
sorgerebbero, in sua assenza, dalle gravi difficolt� di
comunicazione che purtroppo, allo stato attuale, persistono anche
dopo il migliore percorso educativo.
Questo
modello, che � nato 15
anni fa, si � mostrato efficace non solo per trovare il
lavoro, ma anche e soprattutto per mantenerlo .
Per il
gruppo degli autistici pi�
dotati che usufruiscono del supporto ora descritto lo stipendio e i
contributi sono uguali a quelli degli altri lavoratori. I tipi di
lavoro che sono stati svolti con successo sono i seguenti: lavori
d’ufficio, biblioteche, stoccaggio, magazzini, computer,
laboratori, cucine e altri lavori finalizzati alla produzione e
commercializzazione di generi alimentari.
Questo
modello � valido per i
soggetti pi� abili, ma il gruppo TEACCH non rinuncia
all’integrazione neanche per i meno abili, fornendo il job coach
con un rapporto fra educatore e utenti che arriva fino all’uno a
uno per i pi� gravi, passando attraverso tutti gli stadi
intermedi.
Vediamo
da vicino il modello uno a
uno.
Il
reperimento dell’azienda adatta
ad accogliere la coppia autistico-educatore viene fatto direttamente
dalla Division TEACCH che vi colloca l’individuo per il quale si
ritiene adatto quel tipo di lavoro e poi fornisce l’educatore, che
sar� presente per tutte le ore lavorative a tempo
indeterminato.
L’educatore
adatta e modifica la
struttura ambientale in modo da andare incontro alle peculiari
esigenze del “lavoratore”, esattamente come si fa, nelle et�
precedenti, nella scuola.
Per
favorirne al massimo
l’indipendenza e l’autonomia , d’accordo con i colleghi e i
responsabili, l’educatore adatta i tempi, i programmi di lavoro e
l’ambiente alle sue esigenze, ad esempio mettendogli vicino degli
schemi visivi che lo aiutino a svolgere il lavoro nel modo pi�
autonomo possibile.
Uno dei
compiti pi� importanti
dell’educatore � fare da tramite tra l’assistito, che
possiede scarsissime capacit� comunicative, e i colleghi.
Inoltre, poich� il lavoro a lui affidato � un lavoro
vero, l’educatore deve assicurare che venga portato a termine con
la qualit� richiesta e nei tempi previsti. Se poi l’individuo
si agita, dimostra angoscia o malessere, lo aiuta a mettere in atto
quelle tecniche che si sono dimostrate efficaci a favorirne il
rilassamento.
Sorprende
che questo modello sia nato
in America e non in Italia , dove la filosofia dell’integrazione e
le conseguenti leggi scolastiche sono note nel mondo per essere le
pi� aperte e accoglienti.
Nella
generalit� dell’Italia
si � assistito ad una sorta di schizofrenia, almeno per i
disabili mentali gravi: massima integrazione nella scuola, seguita
dai centri socioabilitativi in et� adulta. Non si vuole con
questo disprezzare lo sforzo abilitativo e la qualit� di molti
di tali centri. Si fa semplicemente notare che essi non rispondono
alla logica dell’integrazione per favorire la quale in quasi tutte
le regioni, come l’Emilia Romagna, si sono soppresse le scuole
speciali, anche di buona qualit�, in nome dell’integrazione.
La realt� della
situazione degli adulti autistici in Italia � poi ancora
pi�
complessa. Come risulta dall’indagine di Palazzi in Lombardia e da
altre indagini italiane, come quella compiuta in Emilia Romagna,
in et� adulta gli autistici scompaiono: in Emilia-Romagna la
frequenza sulle rispettive coorti di et� passa dal picco di
0,5 su mille fra 4 e 5 anni di et� a 0,05 su mille fra i 18 e
i 29 anni, per poi tendere a zero oltre i trent’anni. Tra i
disabili intellettivi adulti risulta una quota di autistici
trascurabile, a differenza di quanto avviene per l’et�
scolare, in cui la prevalenza � quella attesa in base a quanto
noto dagli studi internazionali: 1 o 2 per mille a seconda del rigore
con cui si applicano i criteri diagnostici.
Dal momento che di
autismo, allo stato attuale, n� si muore n� si
guarisce, da quanto sopra si evince che i bambini autistici, col
raggiungimento dell’et� adulta, perdono la diagnosi, che
viene sostituita con quella generica di “handicap mentale”
adulto, talvolta addirittura di handicap e basta, dimenticando che la
diagnosi non � fine a se stessa, ma comporta delle indicazioni
riabilitative sulla gestione della persona, che si trova a suo agio
solo se messa nella situazione ambientale e umana compatibile con le
sue peculiarit�. A tutti � noto, ad esempio, che gli
autistici si sentono a loro agio in un ambiente altamente
strutturato e protetto dall’eccesso di stimolazioni fisiche e
sociali,
indipendentemente dalla loro et�. Nell’ottica poi di
un’abilitazione permanente che non si arresti con l’et�
evolutiva, se il soggetto perde la diagnosi, difficilmente
continuer�
a ricevere quel tipo di abilitazione di cui avrebbe bisogno e che
dovrebbe essere specifica per la sua disabilit�, a volte di
segno contrario rispetto ad altre. Ci riferiamo ad esempio
all’opportunit� di non sottoporre gli autistici,
cronicamente affetti da ipereccitazione, ad eccessive stimolazioni,
cosa che invece pu� essere opportuna per altre disabilit�
intellettive in cui la situazione di base � diversa o
addirittura opposta.
Con queste premesse, se
desideriamo vedere dove e quanto ci si � sforzati di tenere
fede anche in et� adulta all’ideale dell’integrazione,
dobbiamo cercare esperienze compiute con disabili mentali gravi, tra
i quali forse sono presenti anche adulti autistici che hanno perso
per strada la diagnosi iniziale. Un esempio di coerenza tra
affermazioni di principio e prassi di integrazione lavorativa ci
viene dal gruppo dell’ASL 3 di Genova guidato da Enrico Montobbio.
Fin
dagli anni 70, in concomitanza
con le leggi sull’integrazione scolastica, il gruppo genovese ha
iniziato un’opera di integrazione lavorativa dei disabili
intellettivi.
Nel
1976 si � costituito il
primo SIL (Servizio Inserimento Lavorativo ) ed � stata
istituita la figura dell’operatore della mediazione al lavoro, del
tutto analoga al “job coach” dell’esperienza statunitense.
Si
� quindi perseguito un
progetto di mediazione al lavoro con l’inserimento in posti di
lavoro pubblici di disabili intellettivi che prima frequentavano dei
laboratori protetti.
Le
prime trenta esperienze si sono
concluse addirittura con l’assunzione. I risultati sono stati
superiori alle attese. Sono stati rilevati importanti apprendimenti
nella sfera cognitiva e maturazione nella struttura della
personalit�. Questi cambiamenti risultavano pi�
evidenti e pi� rapidi di quelli prodotti dai laboratori
protetti.
Questo
primo successo ha incoraggiato
i suoi promotori ad estendere l’esperienza a fasce di disabili via
via pi� gravi per cui, qualche anno dopo, si � giunti
al progetto ILSA, acronimo che significa “Inserimento Lavorativo
Socio Abilitativo”, per realizzare il quale il Comune di Genova ha
approvato, il 28/12/1982, la delibera: “Inserimenti in settori
operativi del Comune di Genova di Handicappati psichici in posizione
di non lavoratori”
Il
gruppo genovese ha avuto una parte
importante nell’ispirare e favorire l’ottima legge 68 del 12
marzo 1999, che segna un notevole progresso nel favorire l’acceso
dei disabili al lavoro, ma che non affronta la tematica del lavoro in
funzione puramente abilitativa per soggetti incapaci di diventare
produttivi, quelli per i quali Montobbio aveva coniato il termine di
“non lavoratori”
Troviamo
invece lo spirito della
Division TEACCH e del gruppo genovese nel “ protocollo operativo
per l’inserimento al lavoro dei disabili ex L. 68/99 con
particolare attenzione ai casi complessi e multiproblematici”
emanato dalla Provincia di Bologna il 28 aprile 2004.
In tale
protocollo all’articolo 5
si legge: “I Comuni e le AUSL hanno competenze rilevanti che
necessariamente sostengono un efficace intervento riabilitativo di
inserimento e che si articolano in due ambiti:…quello, di sostegno
alla transizione al lavoro intesa non necessariamente come
inserimento nel mercato del lavoro, ma piuttosto come fase di un
pi�
generale processo di cura e reinserimento sociale, alternativo ad una
precoce istituzionalizzazione.
Questa
tipologia di intervento
prevede l’attivazione di borse lavoro a contenuto riabilitativo,
con orari e modalit� personalizzate; attivit� formative
ed educative che prevedano la presenza di figure di tutor e di
mediazione sui luoghi di lavoro……..Le borse lavoro possono essere
finalizzate all’assunzione o essere parte di un processo
riabilitativo.” Le prime vengono definite di tipologia 1 e le
seconde, a fine di abilitazione e integrazione sociale, di tipologia
2.
Questa cornice
normativa rende possibili
esperienze analoghe a quelle descritte per la Carolina del Nord e per
il Comune di Genova in quanto la regolamentazione del lavoro prima
vigente, nata per proteggere i lavoratori dallo sfruttamento,
impediva anche la sola presenza di soggetti poco produttivi, e non
inquadrabili come veri lavoratori, in quello che � l’ambiente
naturale di vita per buona parte della giornata degli adulti dai
venti ai 57 anni.
La presenza di questo
protocollo ha reso possibile una prima esperienza di “lavoro
supportato” analoga a quelle descritte nel modello uno a uno
dell’approccio TEACCH, che sar� oggetto di una trattazione a
parte
A
questo punto � doveroso fare una riflessione di fondo, andando a
monte del problema lavorativo,
per
chiedersi quale significato esso abbia in rapporto alla qualit�
di vita dei disabili mentali gravi, spesso incapaci di esprimere i
loro sentimenti e di analizzare il loro stato d’animo.
Quando
parliamo di soggetti con
autismo, ci riferiamo a persone affette da una disabilit�
gravissima, che colpisce in modo pervasivo le abilit� pi�
profonde dell’essere umano: la comunicazione, l’interazione
sociale e l’immaginazione. A queste incapacit�, gi�
di per s� gravissime, si aggiungono, nella maggioranza dei
casi, ritardo mentale e altre patologie come la disattenzione con
ipercinesia e il disturbo ossessivo-compulsivo, nonch� gravi
sintomi trasversali rispetto alle malattie psichiatriche come
l’aggressivit�, la distruttivit� e l’agitazione
persistente: sintomi gravissimi che, quando presenti insieme
all’autismo, risentono minimamente dei farmaci, che anzi spesso
presentano l’effetto paradosso: peggiorano in risposta a farmaci
che in altre situazioni agiscono positivamente almeno nel mitigare,
se non nel sopprimere, tali sintomi.
Nel
campo dell’autismo siamo nella
situazione in cui era la tubercolosi prima della scoperta degli
antitubercolari, quando non era possibile un intervento sulla causa,
ma solo su fattori favorenti la risposta alla malattia, come
l’alimentazione e il clima. Ancora nel 2005 non conosciamo per
l’autismo nessun meccanismo biochimico sul quale interagire e l’unico
trattamento possibile � una abilitazione/educazione
adattata ad ogni singolo individuo in base al suo profilo funzionale.
L’integrazione prima scolastica e poi lavorativa dovrebbe pertanto
inserirsi in un progetto di vita che miri al massimo del benessere
per ogni individuo. Se dunque l’integrazione viene proposta come
terapia, vi � evidenza che abbia una reale efficacia secondo i
principi della “Evidence Based Medicine” o � un ideale di
vita, mutuato da principi validi per l’umanit� in generale,
ma che potrebbero avere delle eccezioni?
Ci
possono essere situazioni in cui �
preferibile creare ambienti ad hoc per soli autistici?
In molte nazioni sono
sorte comunit� agricole per soli autistici, le “farm
communities”, e da qualche anno anche in Italia � stata
fondata la cascina Rossago con questa finalit�.
Queste
esperienze meritano la massima
considerazione e il massimo rispetto, anche se sono in contrasto con
gli ideali di integrazione.
Alcuni
autistici hanno una
ipersensibilit� a qualunque stimolazione ambientale e sociale e
dimostrano di sentirsi meglio in un contesto protetto, creato
apposta per loro; pertanto, allo stato attuale, caratterizzato dalla
totale assenza di terapie chimiche che aiutino gli autistici a meglio
tollerare un ambiente “normale”, � probabilmente giusto
offrire l’una o l’altra possibilit� agli autistici adulti,
senza atteggiamenti manichei e basando il progetto di vita individuale
sugli indicatori di benessere o malessere che questi
soggetti, pur incapaci di comunicare, emettono con i loro
comportamenti: problematici e intollerabili nelle situazioni a loro
inadatte e pi� accettabili nelle situazioni a loro pi�
congeniali.
Del tutto rispettabile �
anche il parere di chi, come l’educatore D. H.,
ritiene che per alcuni disabili gravi sia preferibile impostare un
progetto di vita fatto interamente di svaghi e attivit�
ludiche.
“Conosco moltissimi
“utenti” che non
manifestano nessun interesse e nessuna passione per il lavoro, ma
questo viene loro imposto. Escludendo i casi di vero e proprio
sfruttamento, che comunque esistono, spesso lo scopo �
ritenuto davvero la riabilitazione.
Proprio
l�?
Molte
di queste persone non hanno
autonomia e non sono uguali agli altri per quasi tutti gli aspetti
della loro vita. Non possono gestire autonomamente i soldi, comprando
quello che pare loro, non hanno una vita sentimentale e soprattutto
sessuale “normale”, qualcuno decide per loro nel bene e nel male
le terapie farmacologiche che incidono sul loro umore. Noi “normali”,
potendo scegliere tra quale di questi aspetti della vita eliminare,
non rinunceremmo proprio al lavoro? Invece proprio l� si punta
per renderli normali
YY
insegue in modo martellante le sue
manie, parla solo di quelle con tensione e ansia, gli piace, o
perlomeno si rilassa, solo passeggiando per la citt�, mano
nella mano dell’ accompagnatore, con la casa di qualche amico come
meta per una merendina. Facciamolo passeggiare, non forziamolo a
pelare patate perch� pelare � produttivo e passeggiare
no. Miglioreranno senza dubbio almeno le condizioni atletiche dell’
educatore”
In ogni
caso, sia che si preveda un
inserimento lavorativo integrato, sia che si creino attivit� e
spazi protetti, sia che si programmi una vita fatta solo di
passeggiate, progettare un’intera vita con l’autismo, sempre
presente dalla culla alla tomba, sulle cui cause , totalmente ignote,
non si pu� minimamente incidere, � una grande fatica e
si sa a priori che a grandi sforzi possono seguire risultati solo
parziali e certamente sproporzionati rispetto agli sforzi stessi.
L’educazione
speciale ha fatto
progressi, la farmacologia quasi nessuno. Questa situazione non
dovrebbe essere accettata come ineluttabile. Si dovrebbe creare una
collaborazione, un dialogo permanente tra educatori e medici
ricercatori finalizzato alla scoperta anche di farmaci che aiutino i
soggetti affetti da autismo a ridurre il loro malessere e gli
educatori ad ottenere di pi� con una fatica minore
dell’attuale, che � titanica e assomiglia molto al lavoro di
Penelope.
Per ora
comunque l’unica terapia �
l’abilitazione, un progetto di vita di cui faccia parte, almeno per
alcuni, un inserimento lavorativo studiato e preparato in funzione
della qualit� di vita dell’individuo e non certo della sua
produttivit�
Da
“L’integrazione scolastica e
sociale”, 4/4, settembre 2005, pp. 327-334
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