R: [autismo-biologia] follow up 4 anni dopo la diagnosi

mazzoni.armando a libero.it mazzoni.armando a libero.it
Dom 3 Maggio 2015 21:44:14 CEST


Se comprendo bene l’abstract, lo studio approfondisce 38 casi di 567 arruolati in un programma di intervento precoce, che perdono la diagnosi. Oltre le interessantissime riflessioni che mi hanno preceduto, faccio notare che l’articolo contiene una conclusione implicita di portata ben più larga dell’obiettivo della ricerca stessa: nel 6,7% dei casi una presa in carico precoce (anche se dal solo abstract non si capisce quali e se le tipologie di presa in carico siano eterogenee nel campione) produrrebbe la perdita della diagnosi.

 

La percentuale a mio modesto avviso è più che apprezzabile e significherebbe che su un gruppo/sottogruppo di espressione della sindrome l’autismo è curabile (una cosa forse da premio Nobel). Insomma, da una parte si dice che allo stato attuale non esiste messuna cura risolutiva, né biomedica né abilititativa e dall’altra parte che l’intervento precoce faccia perdere la diagnosi di autismo.

 

Sull’approfondimento dei 38 casi, NON PIU’ AUTISTICI, passo la mano per ignoranza, ma non si capisce se con la “rimozione” dell’autismo i soggetti stiano clinicamente e complessivamente meglio di prima o no.

 

Armando Mazzoni

 

Da: Tiziano [mailto:tgabrielli a alice.it] 
Inviato: domenica 3 maggio 2015 10:44
A: daniela marianicerati; Autismo Biologia
Cc: mazzoni.armando a libero.it
Oggetto: Re: [autismo-biologia] follow up 4 anni dopo la diagnosi

 

Azzardo un commento all'articolo sotto citato relativo alle conclusioni di una interessante ricerca esposta al  PAS Pediatric Academic Societies dalla pediatra Lisa Shulman di New York. 

Al di là di qualsiasi considerazione sui criteri diagnostici inclusivi che l'ultimo DSM apre in modo significativo (diminuendo il rischio di dimenticare qualcuno nell'includere ma aumentando il rischio di poca precisione diagnostica) vediamo che, secondo questo studio, con il passare del tempo, il gruppo selezionato come includibile resta, a sei anni, numericamente significativo. Questo implica che enormi risultati dal punto di vista abilitativo non si hanno nemmeno negli States. Ci si aspetterebbe infatti, per la maggiore lassità dei criteri inclusivi e per l'attendibile, seppur relativa precocità diagnostica abbinata alla applicazione qualificante di attività abilitative (siamo nella patria dell'ABA e del Denver Model - quest'ultimo ormai oltre il lustro), un riconoscimento di queste qualità elettive sulla base delle quali si reclama nel mondo un primato educativo. C'è di più. Oltre ai 38 che escono, gli altri cinquecento e rotti? Confermati? 

Torniamo ai 35. Anche la distinzione in sottogruppi dei 35 che escono dallo studio, apre a considerazioni non secondarie. La ricerca li colloca per il “68% in problemi di linguaggio e apprendimento ( language/learning disability), il 49% problemi di socializzazione (externalizing problems ) che si sotto classificano in attenzione condivisa, iperattività, attività ostative e distruttive (Attention Deficit Hyperactivity Disorder, Oppositional Defiant Disorder, Disruptive Behavior Disorder), il 24% in problemi interni ( internalizing problems )  malinconia, ansietà, OCD, mutismo selettivo (mood  anxiety, OCD, selective mutism), il 5% addirittura lo si colloca diagnosticamente  in un range psicotico - significant mental health diagnosis (psychosis.nos)”. Già questa maniera di procedere la dice lunga sul concentrarsi da parte degli studiosi d'oltre oceano su singoli aspetti clinici (usati per definire i sottogruppi) anziché mantenersi saldamente sulla necessità del ricorrere concomitante della triade diagnostica (socializzazione, comunicazione, disturbi comportamentali). Tale tendenza avvia il rischio, e forse lo sancisce, che fra qualche anno si vedranno inaugurare inquadramenti diagnostici altamente specifici, senza più una visone d'insieme che invece sembrava essenziale per l'inquadramento stesso. Il rischio di queste specializzazioni  dirimenti è quello di promuovere ulteriori altissime specificità terapeutiche e relativi professionisti, il che potrebbe entusiasmare persino ma che purtroppo sposta ancora una volta a valle la soluzione del problema autismo, moltiplicando a dismisura interessi e risposte anziché ricondurre ad una radice che sostenga il complessivo manifestarsi della sindrome. Sembra che non sia importante inquadrare, definire, semplificare il disfunzionamento ma piuttosto occuparsi specificatamente di ciò che esso produce caso per caso, momento per momento. E forse il pericolo può divenire più chiaro se si va oltre. Di particolare interesse  è il miglioramento del QI con il miglioramento dell’autismo. 

Il dato sarebbe a favore dell’ipotesi che la disabilità intellettiva che accompagna l’autismo sia secondaria all’autismo stesso e che possa regredire, qualora questo regredisca (abbiamo per anni sottolineato proprio questa convinzione, spiegata nel testo Out Aut  Vannini Ed., mentre la tradizione parla all'opposto di RM - ritardo intellettivo-  come problematica concomitante e che si somma casualmente, con varia penetranza, al problema autismo).

Questo rilievo conferma che il nucleo abilitativo delle scuole attuali (l'abilitazione intellettiva, competenza per competenza, della persona con autismo) dovrebbe far posto ad un altro target abilitativo, prioritario ed essenziale ma purtroppo ancora oggi marginalizzato e spesso nemmeno tollerato. Il dato evidenzia che il vero target abilitativo in autismo, qualsiasi possa essere il livello di competenze espressa, presente o utilmente fornita con anni di lavoro, il responsabile del ritardo intellettivo e persino della sintomatologia esaminata, è il disfunzionamento autistico nella sua essenza.  Come disfunziona  l'autistico in generale? In quale modo lavora un qualsiasi autistico nel mondo? Il target più profondo non potrà essere più  la competenza x o y, il sintomo x o y ma la modalità universale e trasversale con cui gli autistici lavorano, sperimentano, sentono... 

Tiziano Gabrielli e Patrizia Cova 


Inviato da iPad


Il giorno 02/mag/2015, alle ore 15:54, daniela marianicerati <marianicerati a yahoo.it> ha scritto:

Il 26 aprile scorso si è tenuto a San Diego il  Pediatric Academic Societies (PAS) annual meeting. Sull’autismo ha portato un contributo la pediatra Lisa Shulman di New York in merito al follow up praticato su  un gruppo di 569 bambini diagnosticati all’età di 2,6 anni ( 2.6±0.9y ) e rivalutati dopo 4 o 5 anni all’età di 6/7 anni (6.4±2.8y.)

L’abscract della relazione si puo’ leggere a 

http://www.abstracts2view.com/pas/view.php?nu=PAS15L1_2750.2

e un commento si puo’ leggere a 

http://www.eurekalert.org/pub_releases/2015-04/aaop-scl042015.php#.VT4CxVpH0r4.email

A 6 anni 38 bambini su 569 non avevano più una sintomatologia tale da potere essere diagnosticati nello  spettro autistico ma solo tre su 569 erano liberi da sintomi al punto che su di loro non si poteva fare nessuna diagnosi. 

Per gli altri 35  “68% had language/learning disability, 49% externalizing problems (Attention Deficit Hyperactivity Disorder, Oppositional Defiant Disorder, Disruptive Behavior Disorder), 24% internalizing problems (mood, anxiety, OCD, selective mutism), 5% significant mental health diagnosis (psychosis.nos)”

Di particolare interesse è il miglioramento  del QI con il miglioramento dell’autismo.

“On initial cognitive testing (29/38): 33% with intellectual disability, 23% borderline, 44% average. At follow up (33/38): 6% borderline, the rest average”

Mentre all’inizio il 33% presentava una disabilità intellettiva, al follow up vi erano solo un 6% di borderline mentre i restanti bambini presentavano un QI nella norma.

Questo dato starebbe a favore dell’ipotesi che la disabilità intellettiva che accompagna l’autismo sia secondaria all’autismo stesso e che possa regredire, qualora questo regredisca.

Il fardello di diagnosi residue, a parte i 3 bambini esenti da diagnosi, è comunque molto pesante.

 

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