[autismo-biologia] Efficacia e pesonalizzazione dell'intervento

daniela marianicerati marianicerati a yahoo.it
Dom 29 Giu 2014 22:34:30 CEST



Quando
un caso ha un esito particolarmente positivo ed è  ben documentato, credo sia utile esaminarlo
in modo approfondito, cercando di evidenziare  le componenti ambientali, umane ed educative, che verosimilmente hanno
favorito l’esito positivo.  Questo tenendo
sempre presente che tale esito è frutto dell’interazione tra i fattori
ambientali e quelli biologici. Su questi ultimi al momento non possiamo fare
nulla, mentre sul contesto ambientale possiamo agire.
Un
caso ad esito particolarmente  buono è
quello di Donald, il  primo bambino della
storia che fu diagnosticato autistico, visto da Kanner nel 1938, quando aveva
cinque anni. 
Nel
2010 due giornalisti lo sono andati a trovare e hanno fatto un interessante
articolo, ben dettagliato, sulla sua vita
 
•         Autism’s First Child

John Donvanand Caren Zucker
 
 
October 2010 ATLANTIC MAGAZINE
 
http://www.theatlantic.com/magazine/archive/2010/10/autism-8217-s-first-child/8227/
 
 
Ecco le tappe del suo apprendimento in
età adulta
•         23 anni: impara a giocare a golf
•         27 anni: impara a guidare l’automobile
•         36 anni: impara a viaggiare da solo con l’aereo
 
Donald
ha vissuto con i genitori fino a quando ha perso il padre a 47 anni e la madre
a 52 anni. Ha sempre vissuto nello stesso paese dove era nato, Forest nel
Mississipi. I genitori, benestanti, pur avendo la possibilità di farlo vivere
senza lavorare, lo hanno inserito come cassiere nella banca di cui erano
azionisti. Lo hanno educato fino al loro ultimo respiro, facendogli acquisire
nuove abilità ben oltre la classica età evolutiva.
Parallelamente
all’educazione del figlio debole, i genitori hanno educato la comunità nella
quale vivevano ad accettare le stranezze di Donald e a valorizzare le sue
abilità al punto che, alla morte della madre, è subentrata nell’accudimento di
Donald l’intera collettività di Forest. In questo modo Donald ha potuto continuare a vivere
nell’ambiente dove era nato e cresciuto.
 
Un
altro caso ben documentato è quello di Jessica Park, nata nel 1958. La sua
storia è stata raccontata dalla madre in due libri
•         Claiborne Park Clara - L'assedio, i primi cinque anni
di vita di una bambina autistica con un epilogo: quindici anni dopo -Astrolabio
ed., Roma, 1985 
•         Claiborne Park Clara - Via dal Nirvana - L’Astrolabio, Roma,
2001 
 
Copio
da “L’assedio, pag. 241” là dove la madre descrive la figlia all’età di 23 anni


Jessy
è perfettamente a suo agio e appare perfettamente normale quando c’è del lavoro
da svolgere. Dipinge, cucina, ascolta la radio (ma si interessa di più alla
sigla della stazione che alla musica) e in questo modo riesce fino a un certo
punto a riempire il suo tempo libero, e il repertorio delle sue attività
continua a estendersi. Un puzzle di 100 pezzi puo’ tenerla occupata per un
pomeriggio o due; un nuovo libro di enigmistica le durerà un paio di settimane.
Di tanto in tanto sfoglia un libro, addirittura lo legge un poco 
Ma
alla fine le cose da fare si esauriscono, e se nessuno è disponibile per
introdurla a qualche nuova attività e per condividerla con lei, ci accorgiamo
che l’antica Jessy è sempre là: se ne sta a faccia sotto sul suo letto, ma con
gli occhi spalancati, a metà del pomeriggio, oppure oscilla sulla sua sedia a
dondolo (l’unico posto dove è consentito dondolarsi), troppo forte se non la
fermiamo, oppure al buio. In questi momenti la prospettiva di quello che
avrebbe potuto essere di lei, di ciò che ancora potrebbe essere se il mondo la
abbandonasse,diventa tremendamente reale.
 
Jessica
ha fatto progressi enormi, ma  permane il
rischio di regressione alla primitiva condizione.
Il
rischio è ben noto ai genitori che sanno come prevenirlo tenendola sempre
occupata perché non si abbandoni alle stereotipie.
 
•         Donald fa il cassiere in banca
•         Jessy lavora in un ufficio postale
 
   Le due famiglie, colte e ricche, hanno
optato per un inserimento lavorativo in ambienti di lavoro normali anche se i
figli potevano vivere di rendita
Il
lavoro ha tante valenze positive: la soddisfazione di vedere il risultato del
proprio lavoro, qualunque esso sia, l’incontro con altre persone con le quali
possono nascere belle amicizie, un fattore che dà un ritmo alla giornata e
aumenta l’autostima, un valido motivo per alzarsi alla mattina, oltre
naturalmente alla soddisfazione dello stipendio alla fine del mese. 
Se
questo è valido per tutti, lo è molto di più per chi ha poche risorse. Chi
infatti ha cultura, interessi, amici, fantasia e soldi, sa benissimo come
passare piacevolmente il tempo anche senza lavorare, ma questo non vale per chi
non ha queste fortunate caratteristiche.
 
Gli
insegnamenti che si possono trarre da queste due storie e soprattutto dal
comportamento delle due famiglie sono tanti. Uno di questi è che il lavoro in
un ambiente normale ha un grandissimo valore abilitativo.
 
 
 


Il Sabato 28 Giugno 2014 17:28, Flavia Caretto <fcaretto a libero.it> ha scritto:
 


Salve
Sono Flavia Caretto, psicologa in Roma.
Non sono intervenuta prima, perché questa è una lista di “biologia” e sento di non avere le competenze, per quanto interessata all’argomento.
Sul problema posto adesso (studio dei casi singoli), invece, vorrei dare un contributo.
Il disegno sperimentale su caso singolo esiste, ed ha una sua forte dignità sperimentale, accettata ampiamente nella letteratura anglosassone.
In italiano, si può vedere sull’argomento il bel libro di Cottini “N=1” (appunto: numerosità 1)
Credo che, nell’autismo, la ricerca sperimentale sui casi singoli dovrebbe essere almeno affiancata a quella su gruppi randomizzati e controllati. Per l’autismo, dove sappiamo con certezza esserci una base comune, ma manifestazioni fortemente differenti, lo studio sperimentale su caso singolo, ovviamente condotto su più casi e replicabile, dovrebbe essere quello da preferire, nel caso dell’intervento cosiddetto “non farmacologico” (viene chiamato così l’intervento psicoeducativo, ovvero: l’unica via attualmente perseguibile e largamente perseguita per migliorare la qualità della vita delle persone con autismo e dei loro familiari che non presentino anche una malattia, viene definita per le sue caratteristiche residuali rispetto all’intervento farmacologico - che rimane invece ancora allo studio, nel suo utilizzo sull’intera popolazione autistica).
Credo che dovremmo prendere consapevolezza, o almeno discutere del fatto che in Italia, (dove abitiamo noi e le persone autistiche che conosciamo) produrre studi randomizzati e controllati sull’intervento non farmacologico è cosa decisamente rara ed elitaria, che prevede la necessità di nascere ricchi, oppure di essere fortemente sponsorizzati (e da chi?).
Ricordo che dire “studio sperimentale su caso singolo” non significa studiare una sola persona, bensì fare anche sessanta, cento rigorosissimi studi sperimentali su caso singolo. Il fatto che il disegno sperimentale su caso singolo non venga preso in considerazione per eventuali pubblicazioni sperimentali (e addirittura venga raramente insegnato…), ci condanna a perdere una enormità di dati “di casa nostra”, che relegano l’esperienza italiana al rango, appunto, di episodica esperienza e ci costringono ad abbracciare una logica estranea alla nostra normativa e alle nostre possibilità economiche, allontanando la possibilità di elaborare modelli italiani praticabili. 
Si ragioni soltanto sull’affermazione della necessità di fare 40 ore di “terapia” settimanali, una condizione non sostenibile economicamente né dalla sanità pubblica né dalle singole famiglie con reddito medio, nata in paesi dove non è previsto l’inserimento scolastico in scuole normali, e peraltro mai sostenuta da dati replicabili o replicati nel nostro paese come condizione esclusiva di miglioramento.
Credo che l’onestà sperimentale risieda anche nella possibilità di considerare i risultati di una ricerca in senso, direi, letterale: se si hanno quelle caratteristiche, in quelle condizioni, quelle azioni “funzionano” o hanno significato. Poiché, come è noto, in studi di lunga durata, che prevedono esiti ampi (es: miglioramento delle abilità sociali, deistituzionalizzazione ecc…) non è possibile controllare tutte le variabili, si privilegiano necessariamente in letteratura studi di durata breve su singoli comportamenti, che nulla dicono però su cosa avverrà della vita delle persone sottoposte allo studio in un futuro più lontano dal follow up, e nel contesto reale. Per intenderci: è più facile capire se si è in grado di insegnare a qualcuno a lavarsi le mani, piuttosto che capire se si può migliorare la qualità della sua vita - concetto più difficilmente misurabile. Personalmente, trovo una grande dignità ed utilità, in uno
 studio che mi spieghi come insegnare a qualcuno a lavarsi le mani. Non trovo adeguato, però, che i risultati di studi necessariamente contestualizzati vengano generalizzati come (unica) possibilità di migliorare complessivamente l’esistenza di tutte le persone che rientrano nella grande categoria “autismo”. Credo che sarebbe possibile (lo ammetto, con un certo sforzo economico) rintracciare le persone, i bambini, sottoposti a brevi studi con interventi spacciati per “risolutivi” e verificare, a distanza di due o tre anni almeno (se non di più), cosa è accaduto nella loro vita.
Ci sono azioni, sperimentali e abilitative, che hanno senso “a prescindere” dalla modalità poi utilizzata per modificare il comportamento, come l’individualizzazione e la valutazione pre e post non autoreferenziale. Trovo sconfortante che la linea guida dell’istituto superiore di sanità debba sottolineare che (pag 41) “la scelta di quale sia l’intervento più appropriato da erogare deve essere formulata sulla base di una valutazione delle caratteristiche individuali del soggetto.” Perché sono convinta che dovremmo dare per scontato e pretendere il rispetto di un simile principio - che equivale a dire, in medicina, che prima di somministrare un farmaco, bisogna visitare il paziente, e capire quale farmaco è eventualmente indicato. Questo, in medicina, è noto almeno da duemila anni. In psicologia, a quanto pare, ancora non è scontato, per cui si continua a cercare “la” soluzione unica a condizioni estremamente variate (casi singoli,
 appunto). Possiamo sperare in un futuro dove, nel rigore della sperimentazione, si provi ad utilizzare principi chiari e condivisi alla ricerca non farmacologica in favore di individui diversi fra loro e dalla media della popolazione?



Il 27/06/2014 08:27, mazzoni.armando a libero.it ha scritto:

Da una discussione con un altro genitore circa l’utilizzo, l’efficacia e la personalizzazione, soprattutto degli interventi educativi cognitivi e/o comportamentali, facevo la seguente considerazione, che vi sottopongo con beneficio di inventario:
 
I casi singoli andrebbero collezionati, storicizzati e studiati (comparati e analizzati anche statisticamente), in gran numero. Invece prevale lo studio e la ricerca sul gruppo per periodi di tempo limitati, in cui la storia del singolo si perde, insieme a qualsiasi indicazione utile per il caso singolo, appunto, che è quello che ovviamente ci interessa.
 
Mi è chiaro che studiare un gruppo con caratteristiche omogenee dia risultati statisticamente validi (con il relativo margine di errore) per un caso singolo assimilabile al gruppo, ma sarebbe interessante capire se sarebbe più fruttuoso procedere “verticalmente” invece che “orizzontalmente” e ricostruire i gruppi ex post.
 
Cordiali saluti
 
AM
 
 

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