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  Una mamma racconta . . .

[ TESTIMONIANZA DI UNA MAMMA DI UN ALUNNO AUTISTICO ALLE SCUOLE ELEMENTARI ]


Dopo aver usufruito per anni del servizio sanitario pubblico e in particolare dei servizi sanitario-educativi per mio figlio affetto da disturbo dello spettro autistico, mi trovo a riscontrare alcuni seri limiti che mi portano a dire di non poter essere soddisfatta dell’offerta. Riassumendo, i principali problemi sono:

  • Mancanza di confronto con la famiglia: il genitore sembra non poter sapere troppi dettagli sul lavoro svolto col proprio figlio. Avendo a che fare con professionisti preparati per aiutare i propri figli, è naturale sentire l’esigenza di rivolgersi a loro per sapere come anche noi genitori dobbiamo comportarci a casa, come risolvere qualche problema emergente, come interpretare comportamenti preoccupanti dei nostri bambini. Non c’è la possibilità di un confronto in breve tempo anche se devo riconoscere che gli operatori non si sono mai sottratti ad una richiesta di incontro (che però a causa di innegabili impegni risulta sempre non immediato). La spiacevole sensazione che ha quindi un genitore è quella di non sentirsi considerato parte integrante del percorso riabilitativo del figlio. Talvolta mi sono sentita frustrata per non poter chiarire con gli operatori quelli che per me erano i reali significati di gesti o parole di mio figlio, ai quali veniva dato un significato secondo me errato a causa della non conoscenza di quelli che erano giochi, abitudini e conoscenze del bimbo nell’ambito della sua vita familiare e scolastica.

  • Non ho riscontrato una disponibilità al confronto e alla collaborazione fra diversi servizi della sanità pubblica. Ciò va a discapito del paziente e della sua famiglia che finisce col sentirsi confusa e non supportata.

  • La lentezza inevitabile del sistema pubblico che deve gestire lunghe liste di attesa si scontra con l’esigenza di tempestività d’intervento necessaria a fronte di alcune diagnosi.

  • Impossibilità di scegliere i momenti della terapia e gli operatori. E’ chiaro che si tratta di argomenti secondari di fronte ad un trattamento che apporta vantaggi e miglioramenti per la salute di un figlio, però a me dispiaceva che le sedute di psicomotricità impedissero a mio figlio di partecipare all’inizio della giornata scolastica che era il momento che lui più apprezzava e in cui più riusciva ad interagire.

Mi limito inoltre a constatare l’assoluta impossibilità di cambiare l’operatore che viene assegnato al proprio caso: se si è in sintonia bene, se no l’unica opzione è rinunciare al trattamento.

  • Mancanza di conoscenza da parte del servizio territoriale delle risorse pubbliche e private presenti sul territorio che contribuiscono ad arricchire l’offerta formativa e ricreativa per bambini con handicap.

  • Interruzione del servizio durante le vacanze scolastiche, cioè proprio nelperiodo in cui la famiglia è più sola e nel quale il bambino già perde la sua principale occupazione e opportunità formativa.

Innegabili vantaggi del servizio pubblico sono invece, sempre a mio parere:

  • Gratuità del servizio.

  • Collegamento con le scuole e facilità di accesso degli operatori nelle scuole.

Il trattamento con metodo ABA risponde ai limiti del servizio pubblico offrendo questi vantaggi:

  • Il confronto con i supervisori della terapia e con gli educatori è costante, li vedo continuamente e so comunque di poterli contattare in qualsiasi momento e di ottenere un’immediata risposta. Sono resa partecipe, anzi protagonista indispensabile insieme a tutta la famiglia, del percorso riabilitativo di mio figlio. Mi vengono date indicazioni precise su come comportarmi non solo nei momenti di educazione strutturata, ma anche nel corso della quotidianità. Posso confrontarmi anche su quelli che possono sembrare problemi secondari, esprimere le mie preoccupazioni e i miei sentimenti. Ho ricevuto insegnamenti mirati a risolvere quelle che per la nostra famiglia erano delle questioni prioritarie, mi sento supportata e non più sola nell’avere la responsabilità educativa di un figlio a volte troppo speciale per le mie competenze di genitore. Mi è stato detto che è più facile ottenere miglioramenti rapidi e visibili agendo sui comportamenti piuttosto che sul piano affettivo-relazionale. A questo io rispondo dicendo che per un genitore a volte è importante sentire di avere il controllo sui comportamenti del figlio e che ci sono comportamenti che possono influire in modo significativo sia sulla salute e sulla serenità di un bambino, sia sulla qualità di vita della famiglia. Che qualcuno mi abbia insegnato un metodo per togliere il pannolino ad un bambino ormai grande e riuscire a farlo con successo in una sola settimana, ha avuto come immediata conseguenza quella di eliminare un elemento che a scuola stava diventando pregiudizievole per l’immagine che mio figlio aveva agli occhi dei suoi compagni. Acquisire il controllo dell’istruzione, cioè insegnare a mio figlio a fare quello che gli dico (quando è in grado di farlo), mi ha permesso di portarlo al parco in bicicletta o in monopattino certa del fatto che davanti ad una strada o in caso di pericolo al mio “fermo!” lui si sarebbe fermato. Insegnargli ad accoppiare immagini uguali può sembrare un processo sterile e meccanico, ma questo mi ha permesso poi di insegnargli giochi come il memory o la caccia al tesoro con immagini che ora lui può fare con me o con un altro bimbo.

Certo partecipare alle riunioni, essere sempre aggiornati sui programmi svolti, preparare il materiale, partecipare a seminari formativi richiede tempo e fatica, ma consente di sentirsi utili e di capire meglio le difficoltà e le fatiche che mio figlio deve affrontare e quindi di adattare il mio comportamento alle sue capacità e alle sue esigenze. Poter passare due ore a giocare con un bambino, vederlo ridere, sentire che si sta facendo qualcosa insieme a lui, che quel tempo è piacevole e utile per entrambi, permette di riconquistare un rapporto col proprio figlio che se no più cresce più si sente lontano e inaccessibile.

  • Ho la possibilità di affidare mio figlio ad educatori formati e scelti da me che vengono a casa in orari concordati, conciliando così il desiderio di offrire a mio figlio un tempo utile a lui, ma anche di potermi dedicare serenamente alle esigenze degli altri componenti della famiglia.

  • I supervisori e gli educatori, seguendo diversi bambini e avendo contatti con diverse realtà, conoscono opportunità formative e ricreative del territorio che possano ulteriormente arricchire l’esperienza del bambino e dove egli possa spendere le capacità acquisite con il lavoro più strutturato.

  • Accordandosi con gli educatori è possibile non interrompere il trattamento se non per un breve periodo nel corso dell’estate durante il quale i genitori hanno comunque la capacità di continuare il lavoro ed anzi di sperimentarlo in nuovi contesti.

Non ho alcun interesse nel sostenere un approccio piuttosto che un altro, mi li mito a registrare la ricaduta positiva che il cambiamento di intervento ha avuto sulla nostra famiglia e in particolare su mio figlio, ma non nascondo che anche il metodo ABA ha degli svantaggi:

  • Il costo del trattamento è considerevole, anche se nel mio caso ho incontrato persone oneste e moderate nelle loro richieste. Tuttavia mi risulta difficile capire perché in alcune regioni sia previsto un parziale rimborso delle spese sostenute dalla famiglia, mentre in Emilia Romagna non c’è alcun sostegno.

  • Decidere di avvalersi di un trattamento con metodo ABA significa dover sostenere la fatica di scontrarsi con pregiudizi ed ostacoli burocratici. Io per prima ero inizialmente spaventata da quel che sentivo dire di questo metodo, temevo quasi di trasformare mio figlio in un animale da addestrare, ma è stato sufficiente informarsi e vedere all’opera gli educatori per convincermi che non tutto quel che si dice corrisponde a verità. Dispiace che non tutti abbiano questa disponibilità ad informarsi e che possa capitare che famiglie ed operatori che praticano un metodo riconosciuto come estremamente valido dalla letteratura scientifica debbano lottare e talvolta agire con sotterfugi per ottenere quello che dovrebbe essere un diritto.

  • Il metodo ABA richiede una formazione specifica e una pratica protratta nel tempo. Reperire educatori con questi requisiti, soprattutto in ambito scolastico, non è facile. Non sempre è possibile godere della continuità educativa degli educatori di sostegno, e cambiarli ogni anno significa dover ricominciare da capo la formazione con inevitabile perdita di tempo. Anche in questo ambito ci si deve scontrare con il pregiudizio che la sensibilità educativa e il contesto scolastico siano di per sé adeguati per ogni tipo di handicap e che non sia necessaria una formazione specifica.


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Ho un figlio affetto da disturbo dello spettro autistico. Sebbene sia formalmente ancora in carico al servizio sanitario territoriale, da anni il bambino non usufruisce più di trattamenti educativi e sanitari pubblici in parte per scelta della famiglia in parte per scelta degli operatori.

Ogni anno viene eseguita un’osservazione della quale non viene fatta restituzione ai genitori; i miei unici contatti con gli operatori sono quindi dovuti a motivi burocratici: richiesta di impegnative, richiesta di documentazione, gruppi operativi in collaborazione con la scuola.

Forse sarà una mia impressione ma ogni volta che mi confronto col servizio territoriale avverto un giudizio nei confronti della famiglia per aver deciso di intraprendere un percorso riabilitativo di stampo comportamentale così diverso da quello psicodinamico proposto dal poliambulatorio, tralasciando che questa scelta è stata fatta su indicazione di una struttura pubblica, anzi di un ambulatorio di una struttura pubblica che è punto di riferimento a livello nazionale.

Se quindi capisco le perplessità e le difficoltà che un operatore può provare nel confrontarsi con un approccio lontano dalla propria formazione e dal proprio modo di lavorare, non condivido però l’abbandono di fatto del bambino al percorso riabilitativo intrapreso privatamente quasi che qualsiasi contatto o confronto fosse inutile e improduttivo. Dico questo perché comunque il bambino rimane in carico al servizio territoriale al quale spetta redigere la documentazione, in particolare quella che dà accesso a servizi e prestazioni ai quali egli ha diritto, e che quindi dovrebbe essere redatta da un professionista che abbia una conoscenza effettiva, approfondita e aggiornata del paziente.

Di importanza fondamentale è considerare il fatto che il servizio territoriale rimane anche il punto di riferimento cui la scuola deve necessariamente rivolgersi nella formulazione del progetto educativo per l’alunno disabile. E’ vero che ai gruppi operativi possono partecipare oltre che agli operatori del servizio sanitario anche consulenti della famiglia o operatori con cui la scuola abbia avviato percorsi di formazione degli insegnanti o altri progetti simili, ma è anche vero che i margini di libertà sono piuttosto ristretti. Far entrare a scuola un professionista come consulente della famiglia, sebbene accreditato e che già abbia lavorato in modo proficuo con istituzioni pubbliche, richiede tempi lunghi, tanta fatica e colloqui con dirigenti prevenuti e timorosi di contravvenire alle normali prassi previste.

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Capisco che la scuola pubblica debba fare molta attenzione nel concedere l’accesso ad esterni e che questo venga fatto anche a tutela degli alunni stessi, ma è davvero sgradevole sentirsi dire di richiedere un trattamento privilegiato per voler fare entrare un consulente privato a scuola, se il privilegio è un figlio disabile non so in quanti vorrebbero accedervi. E’ naturale che debba esistere una prassi e delle linee guida stabilite e condivise, ma forse queste vanno aggiornate e riviste. Non si può chiedere a un genitore di sentirsi rassicurato per il fatto che il progetto formativo del figlio è elaborato da insegnanti che abbiano come punto di riferimento operatori che nella migliore delle ipotesi vedono il bambino due ore all’anno, mentre per questioni burocratiche non possono rivolgersi a professionisti che lo seguono costantemente e che hanno anche una formazione specifica più approfondita.

Anche nella scuola ci si scontra con la presunzione che l’handicap sia una grande categoria indifferenziata, dove ogni bambino è fondamentalmente uguale all’altro per cui non esiste l’esigenza di un formazione specifica per l’insegnante, partendo dal presupposto che se un’insegnante ha esperienza sicuramente saprà cosa fare perché non è il primo bambino che incontra. Devo dire che le resistenze si incontrano soprattutto a livello dei dirigenti scolastici, prevenuti, spaventati da ciò che non conoscono, preoccupati di non prevaricare la professionalità dei loro insegnanti, convinti che le cose come stanno siano già più che adeguate. C’è il rischio che si verifichino casi di discriminazione; un genitore che non abbia il tempo, le competenze e gli aiuti (e qui ANGSA è stata fondamentale) necessari può arrendersi subito nello scontro e non ottenere per suo figlio ciò di cui ha diritto.

Per mia fortuna ho incontrato insegnanti attenti e disponibili che hanno accettato di interagire con il consulente della famiglia e dopo un periodo di conoscenza e di presa di fiducia hanno potuto continuare la collaborazione con un progetto finanziato da fondi pubblici. Anche loro hanno riconosciuto che la conoscenza specifica delle esigenze e delle potenzialità legate ad un particolare handicap permette di declinare il percorso didattico ed educativo in maniera più adeguata, accorgendosi di come pratiche consolidate che si credevano universalmente valide potessero non esserlo nel caso specifico.

I vantaggi ci sono per il bambino per cui il tempo a scuola viene sfruttato pienamente, per gli insegnanti che hanno un alunno più gestibile, più integrato e più competente, per la scuola che si arricchisce di un sapere e di professionalità che rimangono come patrimonio.

Parlando di scuola dell’obbligo una ulteriore difficoltà sta nel far comprendere l’importanza del ruolo della scuola non solo sul piano didattico, ma anche ,soprattutto per bambini affetti da disturbo dello spettro autistico, nel creare un programma strutturato che promuova e sostenga l’interazione coi compagni (detto più semplicemente, il lavoro di gruppo pensato in modo strutturato e con cadenza giornaliera che insegni al bambino con handicap a interagire coi compagni e ad applicare le competenze che ha acquisito col lavoro individuale, è visto come una perdita di tempo per gli altri bambini che devono restare al passo col programma ed è vissuto con ansia dagli insegnanti perché indubbiamente si tratta di un compito impegnativo e col quale hanno meno dimestichezza).

E’ confortante che anche i dirigenti inizialmente rigidi e poco concilianti siano poi così rassicurati dalla conoscenza di quello che prima era solo un fumoso approccio educativo di cui sentivano dire le cose più disparate, e così soddisfatti degli esiti ottenuti, da mostrarsi non solo molto più concilianti, ma anzi desiderosi di diffondere e pubblicizzare l’iniziativa presa dalla propria scuola. Rimane il fatto che per un genitore di un figlio con handicap ottenere quello di cui si ha diritto comporta una enorme fatica, un dispendio di energie e di tempo e lo sconforto di scontrarsi con persone e prassi poco concilianti quando non proprio avverse.

Quest’anno ho poi potuto constatare che i sempre più ingenti tagli alla scuola pubblica comportano un progressivo peggioramento del servizio offerto a tutti gli alunni, ma colpiscono primariamente quelli certificati le cui esigenze diventano un lusso insostenibile. La frammentazione degli appalti dei servizi (sostegno all’handicap, pre-post scuola, pranzo) alla ricerca del maggior risparmio possibile anche a discapito della qualità del servizio fa sì che gli alunni si trovino ad interagire con un numero sempre più alto di operatori e che molti momenti della giornata diventino un “parcheggio” e non un’opportunità educativa. I fondi per finanziare i progetti di formazione e supervisione degli insegnanti sono sempre più esigui e se si vuole fare un lavoro sensato la famiglia li deve integrare di tasca propria.

Un ultimo pensiero lo esprimo sulle visite di revisione dell’handicap e dell’invalidità. Anche in questo caso capisco che si tratta di materia delicata e complessa, non mi permetto di dare indicazioni o pensare di poter risolvere problemi. Mi limito a constatare che trovo del tutto inadeguato il fatto che la commissione che si trova a decidere sulla certificazione e quindi sull’accesso a benefici così importanti per i minori con handicap e per le loro famiglie, abbia a disposizione così pochi elementi. Non è certo vedendo il bambino per pochi minuti che si può valutare l’entità dell’handicap e la sua ricaduta sulla qualità di vita della famiglia, né le necessità, le limitazioni e le spese che comporta. L’unica documentazione presa in considerazione è l’esito di un’osservazione e un test effettuati da persone che sicuramente sono estremamente competenti ma che vedono il bambino una volta l’anno e la cui valutazione può quindi non rispecchiare pienamente quella che è la realtà delle cose. L’autismo non lo puoi valutare semplicemente come un ritardo di sviluppo o un deficit nell’apprendimento.

Quello che condiziona la mia vita non è che mio figlio abbia un programma didattico diverso dai compagni, quello che incide è che io non posso lavorare a tempo pieno, che io non posso lasciarlo a una baby sitter qualunque, che io non posso portarlo in giro a fare le cose che fanno gli altri bambini, che io devo lavorare sodo ogni giorno su ogni minimo aspetto della quotidianità se voglio renderlo sempre più indipendente, che io devo pagare educatori appositamente formati perché possa seguire la terapia che scientificamente è più accreditata e per la quale non ricevo nessun contributo pubblico.

Concludo dicendo che nonostante tutte queste difficoltà, nonostante ci siano periodi nerissimi nei quali si vorrebbe solo poter scappare lontano, un figlio handicappato è il figlio migliore che ti possa capitare, l’unico che ti assicura i beni davvero preziosi.

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Una mamma


10 novembre 2011


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