[autismo-biologia] I: [autismo-scuola] Il calvario di una famiglia: prendetevi nostro figlio, è violento e abbiamo paura - CorrierediBologna.it

Tiziano Gabrielli tizianogabrielli a icloud.com
Mar 23 Ago 2022 20:45:02 CEST



È sempre costruttiva la pacatezza di Armando, la sensatezza dei suoi argomenti. Questa complessa sindrome  per essere gestita richiede misura e uno sguardo positivo. La comunanza d’intenti mira a modulare il patto sociale in modo costruttivo e non ad amplificare soliloqui e tristezze. Per fare comunità forte bisogna sorvolare sulle peculiarità verso mete reciprocamente sostenibili ed  apprezzabili rispettivamente dal sociale e dai pazienti. Mai immergersi, immedesimarsi in un singolo problema. Meglio un distacco “operante” visto che non abbiamo soluzioni per il singolo caso per disgraziato possa essere. 
Eppure siamo tutti quel caso. 
C’è qualcuno di voi che non è in perenne stato di allarme? Allerta permanente. Ogni giorno invochiamo un cambio di guardia… dopo 24ore di servizio di accompagno, 48 ore, mille giorni, trent’anni di no-stop abilitativo, sostanzialmente “soli” con il proprio figlio/a che diventa sempre più complicato/a e il sociale che si dilegua.
      L’autismo come dicono gli esperti è sicuramente un problema multidimensionale complesso. Dal punto di vista pratico, quotidiano, per tutti noi, un problema irrisolto, assolutamente irrisolto. 
La dottoressa Cerati evidenzia come la famiglia sia la risposta (tra quelle disponibili) più efficiente nel recupero di questi ragazzi.  Certo ne siamo convinti, quanto meno perché  la famiglia è la presa in carico per eccellenza. Una presa in carico infinita. 24 h al giorno per sempre. 
Ma per comprendere bene la distanza tra la quiete della ricerca e la realtà familiare sarebbe bene ricordare il “calvario familiare” che ha avviato questo confronto. Sappiamo tutti che molte famiglie non sono  in grado di farsi carico del problema autismo e che le risposte che incontrano sono di fatto, nel totale rispetto degli operatori, seppur di varia qualità, sottodimensionate o decisamente errate visti i risultati di cui stiamo discutendo. Oltretutto più grave è il caso, meno efficiente è la risposta. E più passa il tempo più peggiora quella offerta sino a scomparire totalmente. Le responsabilità del fallimento abilitativo e la conseguente impossibile integrazione e persino la banale convivenza,  è nella sostanza sempre attribuita  al genitore. Gli esperti? 
Bisognerebbe aver il coraggio di dire ai giovani genitori con figli con autismo che hanno poco tempo utile, dopo la diagnosi (per precoce possa essere quest’ultima), per intervenire  utilmente (precocemente, in modo intensivo, coordinato, coerente, continuo, secondo pratiche utili, commisurate, somministrate con raffinata misura, ecc. )e che perso questo tempo il discorso si fa difficilissimo. È una vita difficile per chi ha figli meravigliosamente abilitati figurarsi per gli altri. E quelli che li hanno “abilitati” non hanno nomi di esperti da suggerire, non hanno nomi di centri a cui affidarsi.
Chi realizza l’abilitazione? 
La vera sfida sarebbe diffondere la ricetta (metterla a disposizione di tutti) ma è proprio quest’ultima  che manca. Gli operatori, che credono di averla, tendono a lavorare in autonomia e in ambiti extradomestici condividendo poche idee e sempre le stesse  ccon i genitori che agiscono d’istinto e a livello intuitivo in perfetta discontinuità tra operato e operato. 
Bisognerebbe informare i genitori che l’aiuto esterno per certi aspetti c’è ma non se ne deve fare  gran conto. Che il successo di un giorno, il piccolo sollievo organizzato e prontamente decantato crea pericolose illusioni. L’estemporanea quiete, la sbandierata conquista  viene barattata come l’agognata soluzione ma non lo è. Che il lavoro da fare è estenuante, delicato e dura la vita. La risposta del sociale ha un ruolo minimamente suppletivo. Bisogna dire con coraggio che l’impegno vero dal punto di vista abilitativo (e conseguentemente l’accesso ad una qualche integrazione da adulto) cade prevalentemente sulla famiglia che lo si voglia credere o meno. 
Il coraggio di testimoniare questo fallimento del sociale dopo trent’anni di impegno abilitativo viene facile nonostante il molto che si muove attorno. Noi genitori tutti siamo soli. Qualche comparsa a cui dobbiamo onori e gratitudine. Le piccole consorterie che si sono accaparrate i  milioni di tutti per l’autismo, lo hanno risolto “recintando” le gravità degli otto dieci loro associati infine confinati. Promuovono servizi per sostenersi mai in grado di rispondere ai bisogni di chi è in esubero e di chi  sta arrivando e li conducono agli stessi risultati. E i bisogni riguardano troppi casi per poter dire che intorno succeda qualcosa di interessante per un futuro decente. Alla persona con autismo serve quiete e non confusione, serve adattivo attentivo e non stasi o libertà d’azione in cui riconsegnarsi all’autismo, serve normalità e non altro autismo intorno, serve crescere  cognitivamente e non semplicemente procedurale… Serve contrastare la attrattiva fuga nel patologico.
Servirebbe una presa in carico cognitivo comportamentale precocissima e intensiva, una presa in carico genitore-operatore per definire la ricetta disponile a copertura delle 24 ore. Bisogna condividere una abilitazione globale volta a contrastare il patologico al suo manifestarsi sostituendolo con proposte e attività adattive brevi e molteplici mantenendo alto il piacere a parteciparvi. Bisogna uscire dall’autismo; non bisogna capirlo, interpretarlo o persino tutelarlo. Adattivo a getto continuo ma sempre pronti a cogliere stanchezza, scarsa flessibilità, frustrazione, confusione, attività di evitamento e fuga. Un mestiere difficile ma senza il quale la resa è complicata quanto l’autismo stesso. Mestiere che va costruito caso su caso in un progetto comune e solo così progressivamente delegabile è sopportabile. Patrizia Cova e Tiziano, 
genitori di Jacopo Gabrielli

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