[autismo-biologia] contraddizioni

Tiziano Alice tgabrielli a alice.it
Mer 4 Dic 2013 12:15:40 CET


                                                                         “Se non ci si apre all’inaspettato mai si troverà la verità”  (Eraclito)

 

Sommario: Quello che si vorrebbe dimostrare qui è che il modo con cui si affronta l’autismo è ancora sbagliato. E’ sbagliata la risposta istituzionale (nei termini in cui l’istituzione la definisce, la insegna, la fornisce) e persino quella specifica (in quanto “non specifica”, per usare un gioco di parole; in quanto rivolta ad altro dall’abilitare dall’autismo, ovvero impegnata a compensare i ritardo intellettivo e a dare minime competenze comportamentali attraverso apprendimento di routine). Manca l’abilitazione che affranchi dal “funzionare autistico”. La soluzione comporta in un tutoraggio 24h su 24 “non specializzato” con approcci semplici da capire e utilizzare, con obiettivi nuovi da perseguire integrandoli con quanto si tende a promuovere ora. Le famiglie tornino vere protagonisti del compenso e pertanto si assumano la piena responsabilità abilitativa,  conseguentemente ogni centesimo erogato dallo stato per l’autismo venga assegnato alla famiglia, azzerando il flusso di denaro alla fabbrica istituzionalizzata del nulla, mettendolo a disposizione alla vera e unica reale operatrice di una presa in carico che o in questa nuova condizione, supportata nell’agire, potrà essere valutata e monitorata meglio di qualsiasi atra proposta parziale.
 
            La volontà di costruire un mondo possibile e interessante nonostante l'Autismo unisce tutte le persone che hanno a che fare con questa sindrome. L’intento comune o patto condiviso muove da un modello di presa in carico potremmo dire consolidato: presa in carico mista, organizzata tra istituzione e famiglia. 

 

Tra i due momenti abilitativi, istituzionale e familiare, non è mai corso buon sangue ma come in ogni cosa riguardante la risposta all’autismo, si usa reciprocamente far buon viso al contributo dell’altro. Manca da sempre tra le parti un valido scambio di certezze e di intenti condivisi e questo per un altalenante rincorrersi di attribuzioni, attese, risposte parziali, delusioni, in un irrisolto scambio di ruoli e responsabilità. Difficoltà di dialogo che risultano legate indissolubilmente a più retaggi culturali e fraintendimenti mai del tutto risolti.

       Da quando si ha a che fare con il "limite - handicap", la famiglia è stata percepita quale soggetto doppiamente responsabile, “fonte” (dal punto di vista genetico) del problema e “sede elettiva” della sua gestione e per questo debole, condizionata negativamente dal “limite” stesso, la cui gravità determinava la possibilità o meno di farsene carico direttamente, alla cui defezione corrispondeva la chiamata in causa dell’istituzione.

L’istituzione incarna(va) comunque la competenza, prima, durante e dopo la diagnosi. L’handicap poneva sullo stesso piano, famiglia e persona disabile, rendendo entrambi bisognosi di cure (mediche, psicologiche i genitori) e di aiuti (sussidi; protesi; ricoveri, ecc. per le persone colpite dal limite).

La famiglia storicamente l’interlocutrice/richiedente (non solo per procura) si cala da sempre in una difficile distinzione di specificità nella "domanda" (per sé o per il disabile stesso). Questi (pre-) giudizi hanno, di fatto, fotografato socialmente la famiglia con disabile,  "inabile" a gestire compiutamente la problematica. 

Tra i fraintendimenti invece, gioca uno spazio essenziale, nel marginalizzare la famiglia rispetto ad un intervento peraltro essenziale, il non ancora dismesso invito a “delegare” all’istituzione (sanitaria; scolastica; di accolgienza e ricovero) ovvero ad "esperti". Abbiamo ricevuto tutti il consiglio “iI genitore faccia il genitore. L'abilitazione è compito dell’abilitatore professionista!”. Scatta ancora questa tiritera appena il genitore mette becco nell’operato degli addetti o esagera nelle pretese. Piú che risolvere la confusione, definendo i ruoli di ciascuno, l'assunto dimostra piuttosto quanto sia profondo il convincimento che solo l’istituzione è “atta a risolvere”. Il motto esprime anche un perentorio giudizio sociale su chi (non titolato) invade un campo di spettanza istituzionale. Ricolloca il genitore al suo posto, in sudditanza.

Vi è da dire che ultimamente si è passati a formule più blande o meno restrittive a proposito di chi possa dirsi (in qualche modo) “esperto” in autismo. Il riconoscimento concesso al genitore messo in cattedra per la sua esperienza diretta è per fortuna di circostanza. Viene ripescato secondo opportunità (vale a dire, a discrezione dell'istituzione stessa) spesso a fine descrittivo la sindrome o il quadro individuale. In tale ottica la famiglia è oggi comunemente definita anche, "risorsa”, quando l'istituzione scopre che il farsi carico del problema autismo diventa palesemente insostenibile per dimensioni e costi sociali e forse anche a seguito della consapevolezza della pochezza insita nella proposta istituzionale. Si sente esprimere ovunque per la famiglia, stima, mentre si preme e si chiede che sia semplicemente "sollevata".  ll ruolo abilitativo dei genitori è sempre subalterno a quello del “nominato” (automaticamente esperto) in ambito istituzionale ma sorprendentemente, quando un certo impegno abilitativo viene svolto anche in famiglia, si avvia una sorta di accondiscendenza preoccupata che raramente avvia un confronto, uno scambio di informazioni, mentre attiva piuttosto una frattura tra le parti e un atteggiamento critico da parte degli esperti se perdono il controllo della loro proposta o rispetto a nuovi andamenti (inesistente invece qualsiasi accoglienza di critica sugli effetti di quanto erogato istituzionalmente). Questo atteggiamento lo si nota persino nel pensare comune. Di fronte ad ogni conquista ottenuta, scatta per prima l'idea che sia stato l'esperto o l'istituzione a renderla possibile e si prende regolarmente sottogamba il farsi avanti della mamma.

 

La mancanza di una precisa distinzione dei compiti e responsabilità è problema atavico e irrisolto. 

Quale compito spetta al sanitario? Diagnosi, Ricerca, Terapia, Ri-Abilitazione?

Quale, all'insegnante? Pedagogia "speciale" relativamente ad obiettivi pre- /scolastici semplicemente o  altro?

E al genitore? "Educazione, di che tipo? Quali obiettivi sono di pertinenza"? 

Esiste, per ciò che attiene all'Autismo una distinzione vera tra curare, abilitare, educare, insegnare? Hanno importanza diversa? O siamo davanti ad un insieme operativo che semplicemente si compenetra trasversalmente (suggerendo un lavoro in rete) e che infine, “è” o “non è” qualitativo, è o non è utile, efficace?

 

In campo educativo-abilitativo, la risposta ufficiale, quella erogata, è quella istituzionale (sanità, scuola e varie espressioni di residenza) indipendentemente dalla qualità e dagli esiti. In quanto legittimata, normata, referenziata e apparentemente controllabile, quella istituzionale  è la sola risposta presa in considerazione. Questo privilegio mette, giocoforza, in secondo piano ogni “altra dimensione abilitativa” estranea ad essa (prime fra tutte quella domiciliare, familiare).

 

L'ottica abilitativa adottata nella presa in carico (istituzionale) è di tipo educativo-comportamentale, tecnicamente "specializzata".

 

Il modello educativo per eccellenza si realizza prevalentemente (per usare un eufemismo) nella scuola, anche se si vorrebbe far credere che succeda e si perpetui nelle istituzioni coinvolte in parallelo o successivamente ad essa, (comprendendo in tale termine la presa in carico sanitaria, semi-residenziale e residenziale, pubblica e privata, convenzionata o meno). La convinzione diffusa che l'apparato onori e copra con competenza i bisogni nel loro succedersi riflette il peso formale che l'istituzione riveste ben oltre le reali spettanze di merito.

 

Quanto avviene al di fuori delle elencate "aree istituzionali" non è considerato perché riguarda una sfera squisitamente "privata" (spazio domiciliare). Sfera, questa, assai poco controllabile e difficilissima da definire in termini generali, quantitativi, qualitativi e cronologici, e pertanto così disomogenea che si stenta a coinvolgere secondo schemi prefissati. Sopra essa pertanto domina, incontrastato per rispetto e autorevolezza, il sapere e l’esercizio istituzionale. E’ così radicata questa certezza che il riscontro stesso di outcome negativi si fa ricadere proprio sulla conduzione famigliare, tanto da giustificare l’ipotesi, ormai ricorrente, che l’indennità d’invalidità, nei primi diciott’anni di vita, venga tolta dalla disponibilità diretta della famiglia e trasformata in voucher da spendere presso centri autorizzati per l’abilitazione. In simile solco si pone anche la proposta di estendere l'abilitazione istituzionale allo "spazio domiciliare privato" (proposta di per sé interessante ma ridotta ancora una volta a puro accesso nel privato dell'istituzione – abilitatore in casa - con il rischio che, essendo la formazione accademica attuale incentrata e limitata ovunque alle tecniche di insegnamento di nozioni prescolastico e scolastico, si finisca per riproporre in casa gli stessi obiettivi, attività e tecniche di somministrazione di pertinenza pre- e scolastica, in un esercizio continuo di identiche performance) che  nuovamente marginalizza il familiare al ruolo di mero osservatore o eventuale libero imitatore di identiche procedure - incompetente perché nessuno "lo forma" consentendogli di utilizzare lo schema abilitativo (di moda) in altre situazioni educative meno strutturate ovvero incidentali -.

 

Nonostante quanto detto, sembra si voglia comunque dimenticare che la dimensione “privata” copre la maggior porzione temporale della presa in carico stessa e che il modello abilitativo extra-istituzionale, non “specializzato”, appannaggio della famiglia, è quello che comunque entra in causa più di qualsiasi formula  di presa in carico istituzionale.

Quella familiare costituisce oltre tutto la presa in carico che maggiormente plasma il destino delle persone con autismo. 

 

Checché si predichi il contrario la famiglia ha quindi un’importanza abilitativa smodata. 

 

Sarebbe pertanto urgente concentrare l’attenzione non più sull’istituzione (che nell’apparato e nei muri testimonia la sua esistenza, visibilità e bravura ma non nei fatti) bensì sulla risposta "non istituzionale", non specializzata: la famiglia. 

La mancanza di supporto e la scarsa attenzione riposta nel, mai abbastanza sottolineato, ruolo abilitativo della "famiglia", contrasta in modo impattante con l’enormità e l'esosità di mezzi ed erogazioni impiegati per l’apparato su cui si regge la risposta "istituzionale".

A ben guardare infatti l’apparato istituzionale edificato, ha dato e dà risultati assai “modesti”, forse addirittura peggiori di quelli in generale ottenuti nella dimensione privata così puntigliosamente trascurata.

Risultati, quelli istituzionali nel loro complesso assai meno significativi perché, anche quando accertati, rimangono ristretti al parziale compenso del ritardo intellettivo concomitante o correlato alla sindrome (in un range di competenze prescolastiche e scolastiche - prevalentemente basico-) mentre restano pressoché nulli gli effetti a proposito del disfunzionare autistico, immancabilmente trascurato e lasciato alla gestione "fai da te" dei familiari. Questi volenti o nolenti rimangono perennemente impegnati nella drammatica ricomposizione di un vivere possibile, subordinandolo (adattato e gramo) all'autismo dei figli.

Oltre questo limite incontrovertibile dell’intervento ufficiale, vi è anche quello che mai l’istituzione si impegna in un compenso abilitativo “globale” o specificamente “educativo-comportamentale” in senso complessivo, verticale nel tempo e nello sviluppo psicocognitivo.  

 

La “risposta ABILITATIVA” istituzionale si avvale (anche quando il disabile è istituzionalizzato) di una erogazione a tempo. Al di fuori dell’istituzionalizzazione l’intervento abilitativo è anche a scadenza, perché oltre un certo traguardo temporale, tende a cessare. Già all'uscita della scuola primaria obbligatoria, integrazione e impegno abilitativo calano progressivamente, per concentrarsi su accoglienza, occupazione e contenimento verso i quali convergono "domanda e offerta" a proposito di autismo, adolescenziale e adulto. 

 

Il modello abilitativo da cui scaturisce la proposta attuativa adottata nelle sue varianti e sviluppi, ha ormai cinquant'anni di storia e di applicazioni nel mondo. In Italia un po’ meno (solo alcuni decenni). In quarant’anni si è passati da una nebolosa di proposte minori, comprendendo tra esse anche quelle fraudolente, su su sino al Teacch e oggi ABA-VB e Denver Model…, in un continuo aggiornamento metodologico dove i metodi adottati continuano (Ahi noi) ad essere presentati come “alternativa sicura” ai fasti del precedente, più che come attendibile evoluzione. Nonostante il perdurare di identico stile impositivo, sembra a tutt'oggi che la proposta abilitativa resti, per tutte le ragioni dette, così fragile da doversi nutrire di un alone di protezionismo militante per potersi affermare e diffondere. E’ facile notare infatti che, nei circuiti coinvolti e dedicati al progetto, vige nei confronti di quanto in ultimo proposto, una faziosità eccessiva nella validazione, un’insistita richiesta di applicazione e un’attesa miracolistica per i risultati.

 

Le sole critiche concordemente espresse, in riferimento al progetto nazionale, sono circoscritte e rafforzative o ridimensionano il valore degli esempi applicativi provenienti dall'estero (ad es. modalità applicative/esperienze) che, se eccessivamente performanti rispetto a ciò che accade o a quel poco che si riesce a raggiungere e pretendere in Italia, scatenano immediatamente il coro sciovinista: Anche da noi ci sono Eroi…; oppure sono intese a incrementare i tempi applicativi della formula adottata o ad aumentare il numero degli erogatori competenti sul mercato (che di riflesso reclamano risorse accademiche e denaro pubblico a sostegno dei formatori e dell’elevato numero di operatori richiesti per i singoli interventi sui futuri fruitori, tra i quali  molti sono quelli che, date le caratteristiche economico-culturali, non potrebbero accedervi se non tramite esborso statale).

Non ultima complicazione al diffondersi della risposta ai Disturbi Pervasivi dello Sviluppo è l'apparente semplificazione inclusiva della sindrome a un binomio sintomatico-funzionale (comportamento-relazione) la cui applicazione anziché chiarire il target diagnostico ha spalancato le porte a una moltitudine di possibilità cliniche… a cui però si dovrebbero (a rigor di logica) applicare identiche operatività abilitative. Quello che invece ne consegue è un’inquietante riapertura della casistica e delle possibilità terapeutiche adottabili (non faccio riferimento alla sola dimensione psicodinamica, ma a tanto altro...) con ripristino di una confusione a cui si era difficoltosamente posto rimedio con l'affermarsi della terapia cognitivo-comportamentale su tutte.  Il grande calderone e i numeri reclutati mettono a repentaglio la credibilità stessa dell'efficacia di quanto promosso. Oltre tutto, la massiccia presenza di borderline fa disperdere un’enormità di risorse, distolte ai casi tipici verso quelli molto più "promettenti soddisfazioni immediate" che diverranno l'orgoglio di operatori “richiestissimi” e oggetto di fantasie interpretative di un pubblico sempre più superficialmente informato e coinvolto.

 

Con disappunto e intolleranza ostentata mal si accolgono interventi su limiti e contraddizioni che il progetto (non solo nazionale) messo in atto, evidenzia e palesa. Nessuno tollera che si guardi in modo critico a ciò che sino ad ora il sistema ha prodotto anche dove ha visto applicazioni avanzate e intensive di quanto propone ora (si ricorda qui un contributo sul tema: Lettera aperta 2012).

 

Lettera aperta 2012.

Devo raccontarvi una storia, sperando che qualcuno mi spieghi perché succede proprio a noi che ci occupiamo di autismo.

    Jacopo, mio figlio, aveva quattro anni e mezzo nell'estate del 1999. Avevamo ricevuto la diagnosi a Verona dalla dott.ssa Barthélemy, confermata poi a Bologna e a Reggio Emilia (scala Cars 56).  Di lì a qualche mese, visto il vuoto propositivo professionale, diagnostico e terapeutico esistente in regione Trentino Alto Adige, a proposito di autismo, fondammo "Genitori in Prima Linea" mirando alla tutela legale dei bimbi con problematiche neurocerebrali. Cominciammo a conoscere le più diverse situazioni e solo qualche caso di autismo prevalentemente adulto. Capimmo che per essere di aiuto dovevamo specializzare i nostri interessi. Di lì a poco conoscemmo Angsa Trentino Alto Adige e aderimmo. Analizzata la situazione generale denunciai pubblicamente e all'Ordine dei Medici di Trento l'omissione di ri-abilitazione medica. Ci fu un certo rumore sui media locali e nazionali. Ottenni il primo congresso sull'autismo in Regione, per di più pagato dall'Ordine dei Medici. Per la prima volta si parlò di "abilitazione" (e noi tra i primi in Italia introducemmo l'Aba, l'Analisi Applicata al Comportamento).

Di lì a qualche mese venimmo invitati da una mamma di una provincia d'Italia. Dovevamo sostenerla nel creare nella sua città una associazione per dare risposte all'autismo. Ci andammo portando con noi, un neuropsichiatra, assistente universitario, esperto di autismo e una pedagogista trentina che si occupava di neuro-riabilitazione. Spiegammo l'autismo ai cittadini chiamati a raccolta da quella speciale mamma. Lì, durante un rinfresco, conoscemmo il suo bimbo, il meraviglioso Francesco (nome di fantasia) di otto anni, verbale, con una ricca e decisa personalità, molte competenze relazionali, uno sguardo brillante e poche stereotipie, limitate a precisi momenti della giornata. Mi preoccupai molto per me stesso paragonando quel ragazzino autistico in gambissima a mio figlio che, al contrario di Francesco, non parlava più ed era uno tsunami comportamentale, notte e giorno. La brillante signora fondò l'associazione nella regione e caparbiamente ottenne il sostegno pubblico e politico voluto; si iscrisse ad associazioni nazionali, di alcune ne divenne importante referente ed entrò nei direttivi di allora. La sua associazione fece cose grandi, organizzò una marea di congressi; attivò un centro diurno tutt'ora funzionante e si garantì il contributo dei migliori specialisti nazionali ed internazionali. Per le sue grandi capacità manageriali ottenne finanziamenti di enorme peso. Garantì e tutt'ora garantisce il "servizio" di abilitazione a molti fruitori autistici, di diverse età nella sua regione. I suoi progetti, molto arditi, le hanno procurato l'ammirazione di tutti i titolari delle associazioni nazionali, progetti imitati non solo nella sua regione ma replicati anche in altre province.

Nel frattempo più interessato ad abilitare che a politicare, io ero uscito dalle associazioni dette, sollevando definitivamente i leader di allora (gli stessi di oggi) dall'opportunità di un'autocritica nel titolarsi e collocarsi come "guide esperte" per nuovi genitori a fronte di un primato in fallimento pressoché totale nel recupero dei loro figli. Devo ammettere che ho riscontrato come esista una incompatibilità profonda tra il praticare abilitazione seriamente e l'impegno a tempo pieno nel volontariato. Nei successivi incontri con questa mamma dopo un effluvio di riconoscimenti sul suo operato, convinto di averne ruolo, mossi delle critiche, evidentemente non attese, critiche ad un certo operare del centro da lei organizzato. Critiche in merito ai programmi abilitativi e loro somministrazione. Inoltre, devo ammettere che, ad un collega che voleva aprire un Centro con lei, in altra provincia, dissi le mie perplessità sul tipo di gestione abilitativa, ottenendo l'inimicizia definitiva di entrambi... Per quest'insieme di ragioni ci si incontrò e confrontò sempre meno (volentieri). I rispettivi approcci al problema autismo prendevano strade divergenti e inconciliabili. Mia moglie, Jacopo ed io, incontrammo sempre più sporadicamente lei e la sua famiglia nelle estati italiane che trascorrevamo al mare e vedemmo sempre meno Francesco... i cui progressi  immaginavamo comunque irraggiungibili per il nostro Jacopo. Noi a cercare il bandolo della matassa all'interno di un percorso personale, lei dall'altra, gestore erogatore e fruitore diretto del sistema abilitativo migliore possibile del mondo, perfettamente consono allo stato dell'arte scientifico, quello che ogni genitore sogna per il proprio figlio e che fatica ad ottenere. Mi aspettavo grandi cose, dunque per Francesco. Godeva di un vantaggio impagabile. Un centro semiresidenziale di abilitazione perennemente aggiornato, a disposizione. La speciale mamma manager non ci frequentava più. Si proclamava impegnata per il sollievo di tutti, facendoci sentire inadeguati in quanto egoisticamente concentrati sull'autismo di uno, Jacopo, nell'impopolare convinzione che: "salvane uno e li salvi tutti". Dopo anni di silenzio, ricevo notizie dettagliate di Francesco. Resto basito. Adulto troppo difficile, istituzionalizzato fuori regione. Sì, in un centro questa volta residenziale... ma di grido.

Quella mamma di successo, manager di un Centro dedicato ad abilitare autistici, decine di operatori, esperti "esperti"; intervento assistito a scuola; interpretato individualmentevnel pomeriggio; assistito a casa; donna capace di ottenere e muovere risorse economiche e umane sempre più considerevoli, non sembrava essere riuscita a costruire un percorso abilitativo decente per suo figlio? Non aveva ottenuto un compenso che le permettesse di viverselo in casa? E chi meglio di lei avrebbe potuto? Che fosse un bluff, per ottenere ancora di più? Per ottenere fondi per un centro residenziale? iI "dopo di noi" di proprietà, pagato dai contribuenti, quello che tutti vorrebbero? Che puntasse a quanto ottenuto da altri presidenti impegnati nell'edificare veri e propri castelli di futura, meglio, postuma scienza abilitativa... per adulti e anziani? Ho ipotizzato varie spiegazioni per non sentirmi nuovamente inutilmente critico. Francesco, mi veniva riferito, evidenziava significative difficoltà comportamentali, non proprio sporadiche, impossibile l'auspicata integrazione. La mamma impegnata nella laurea. Per altri ammalata. Pensare che, per anni, mi ero chiesto come recuperare la stima di quella madre. Come farle capire quali grandi cose le riconoscevo aver fatto, quali parole avrei dovuto e potuto meglio utilizzare per farle comprendere gradevolmente il mio punto di vista sul Teacch, sull'Aba sempre lo stesso giochetto (non per colpa dell’Aba certo), somministrato a ore, sugli esperti a cui si affidava, su come aggiustare le proposte del Centro o su come risolvere i Comportamenti Problema di Francesco. Per anni mi sono colpevolizzato per aver perduto, in base alle mie minime certezze abilitative, un'amicizia a cui tenevo. Per anni mi sono chiesto, guardano i sorprendenti miglioramenti di Jacopo, "chissà come sarà diventato Francesco?". Ho ipotizzato quali importanti cose avrebbe potuto fare Francesco, quali insegnamenti mi avrebbe impartito, umiliandomi, il suo miglioramento sulla scorta di quanto da lui ricevuto rispetto a ciò che sperimentavamo da soli con Jacopo convinti di perdere montagne di tempo prezioso per tanti errori che riconoscevamo  aver fatto lavorando senza guide esperte. Lo immaginavo ancora una volta accoglierci, sorridendo e correndo giù dalle scale incontro a noi e a Jacopo. Ho fantasticato tanto sui progressi che a Francesco, un Centro e una moltitudine di operatori agguerriti, avrebbero garantito, assieme ai benefici per tutti gli altri suoi amici.

Ora mi rimbomba nel cervello la telefonata di una diversa mamma di lì. Ci chiede aiuto per suo figlio adulto. Le dico di rivolgersi alla mamma di Francesco, che gestisce i centri in regione. Mi dice che lo ha fatto ma che appunto non aveva soluzioni disponibili e che purtroppo anche lei aveva dovuto istituzionalizzare il figlio addirittura in un centro residenziale a 500km da casa. Anche la mamma al telefono cercava un centro, persino in trentino. Invidiava la mamma di Francesco.

Guardo mio figlio e penso a Francesco. Provo un'infinita tristezza.

Quanto denaro ha fatto muovere inutilmente, quanto limitata di contenuti e di valori è stata la risposta ricevuta e che mille altri Francesco attendono, uguale... e che forse riceveranno. Penso alla difficoltà di smuovere il Mondo che ruota intorno all'Autismo verso un diverso impegno, verso una quotidianità di lavoro individualizzato non istituzionalizzabile, nè delegabile, nè legiferabile ; penso a quanti inutili  centri straordinari costruiremo ancora, prima di riflettere su questo e ogni ennesimo inconcepibile (dal mio personalissimo punto si vista) sacrificio umano e culturale collettivo. Penso all'ingiusto rinnovarsi di insostenibili sconfitte. 

 

Succede infatti che i bilanci di efficacia finale (outcome) di quanto già praticato vengano taciuti (forse per decenza e compassione o forse per incoerenza rispetto al trionfalismo che li ha preceduti). Qualsiasi bilancio di efficacia infatti, (compreso per quanto si sta proponendo), viene regolarmente procrastinato al prossimo decennio, vale a dire a dopo che l’applicazione del knowhow abilitativo istituzionale attuale, potrà dirsi espletato dalle professionalità ingaggiate. Il consuntivo finale, pertanto, ci verrà comunicato in un futuro lontano... sempre che non si avviino nel frattempo nuove revisioni dei metodi attualmente in voga. Rinnovati silenzi ci attendono. Aspetteremo, per ogni giudizio di efficacia abilitativa reale, decennio dopo decennio, in un perenne deserto di sicurezze. Nel  frattempo il perenne spostamento in avanti di ogni verifica di merito, garantisce a priori il valore dell’abilitazione proposta (qualsiasi questa sia purtroppo), che ne salva l'edificazione e ne giustifica i costi. Poco importa se questo attendismo, da una parte impedisce il disvelamento delle contraddizioni manifestamente evidenti nel costrutto e nell’esito complessivo, già ora, visto il fallimento in progress sotto gli occhi di tutti dell’outcome generale.  Dall’altra, questo costume attendista, impedisce la correzione o la sostituzione nel/del progetto attuale dagli aspetti negativi con opportune contromosse. I bilanci negativi sottaciuti, l’enfatizzazione di ultime piccole conquiste (ostentate emotivamente a fronte di minuti avanzamenti), il vigente protezionismo metodologico, producono un ulteriore effetto negativo: la non accoglienza, trasferimento e diffusione di singole esperienze abilitative (magari di notevole successo) o di varianti applicative (tipiche elaborazioni possibili nella sfera privata) respinte in quanto discoste o critiche rispetto all’ortodossia, alla dottrina o perché non sottomesse ai governatori del progetto o alle loro declinazioni. Succede magari che ci si appropri e si usano pubblicamente i sunti video dei risultati ottenuti dell'operare alternativo (a promozione e vantaggio dell’ufficialità) ma mai si spiega l'impegno “diverso” e ciò che “in più” è stato espletato (la singolarità e la fatica a rielaborare quanto disponibile e ad aggiustarlo a buon fine, vengono sperperati e si fanno diventare motivo di non replicabilità) e si glissa su ciò che li distingue dal progetto istituzionale deciso e prospettato, soprattutto non ci si sposta di una virgola da questo.

 

Ogni declinazione del progetto abilitativo istituzionale attuale, muove da, e promuove un modello storico di presa in carico, a tempo e a scadenza, sempre più definito e aggiornato (nell'omologazione). Sembra quindi facile cogliere, già comparando i risultati recenti di tale applicazione con i risultati di quanto effettuato in precedenza (comprendendo anche i trattamenti più antiquati) il ricorrere di un identico bilancio finale. Coincidenza che fa capire come il progetto avviato già pecchi sostanzialmente di molti limiti.

Elenchiamo alcune conosciute contraddizioni.

Oltre al dato che molte delle esperienze, rigorosamente "private" sono risultate positive praticando un tutoraggio 24h su 24 (persino se ad inizio tardivo), tutoraggio h24 per moltissimi anni. Si vuol far notare qui che di per sé già ogni famiglia ha in carico il figlio per 24 ore al giorno. Sarà l’outcome finale a sentenziare la quantità e qualità “abilitativa” che verrà somministrata. Per tale ragione è indispensabile che la presa in carico familiare sia quanto più possibile abilitativa. Bisogna anche ricordare che esperti di fama si esprimono per eguale approccio, meglio se accompagnato da un, quanto più possibile, precoce avvio dell’intervento cognitivo comportamentale.

Tutoraggio e precocità costituiscono la piattaforma abilitativa sine qua non. 

Da ciò si deduce che l’intervento a tempo, proposto dal progetto nazionale, è di per sé incoerente. Poco serve ribadire "sin qui arriviamo" se poi questo non produrrà nulla di interessante, figurarsi di solutorio. Non si dimentichi nemmeno che è un poco più di “nulla” a fronte di un enorme impegno economico e sociale, immediato e in ricaduta.

Non solo.

Il detto tutoraggio 24/24, non potrà nemmeno mai risolversi in piena delega a terzi nominati (personale competente) ma dovrà per forza concretizzarsi diversamente per potersi realizzare. 

Perché non prenderne atto?

Necessariamente l'intervento dovrà estendersi ben oltre la scuola e questo significa saper coinvolgere attivamente molte figure, cominciando dai genitori e altri familiari. Il  coinvolgimento dovrà andare oltre l'assai marginale spazio tradizionale loro riservato, richiedendo alla famiglia un’attività educativo-abilitativa di "alto profilo qualitativo".  

Come si compensa l'inevitabile durata temporale della presa in carico domiciliare (familiare) con un alto profilo qualitativo della stessa?

Detto questo sembrano intuitive altre criticità.

Abbiamo bisogno di una presa in carico che coinvolga tutti (a partire dai genitori) e questo non è compatibile con la pretesa di una elevata specializzazione di ciascuno. Il reclutamento abilitativo esteso, a forze eterogenee per cultura, disponibilità, capacità e formazione, appare inconciliabile con speciali conoscenze.

Non si può più trascurare la necessità di prassi educativo-abilitative molto più semplici, intuitive, di facile espletamento nella pratica quotidiana, allontanandosi quanto più  possibile da una abilitazione “specializzata”.

 

 

Queste considerazioni evidenziano la farraginosità dei seguenti assunti:

1) Indispensabilità di un’altissima specializzazione per l'autismo. Questa asserzione è di un'assurdità ridicola. Se le nozioni e le prassi indispensabili per realizzare un recupero efficace debbono essere estensibili a chiunque (debba o voglia avvicinare una persona autistica), dovranno essere semplici, comprensibili e praticabili da tutti, familiari in primis. 

Se concordiamo su questo, oggi si sta viaggiando contromano. 

L’accondiscendente politica e cultura della complicazione nell’abilitazione, la rende di fatto poco trasferibile, poco utilizzabile (da chiunque), espletabile solo da personale esperto, multilingue, raro se non introvabile e conseguentemente costoso = proposta inutile.

Stiamo adottato un’abilitazione non solo elitaria dal punto di vista della formazione ma anche perché adotta un numero di operatori specializzati oneroso e pertanto costoso, tanto da risultare infine assolutamente poco praticabile e quindi poco efficace.

Perché continuare in questa direzione, dunque?

Condividere queste considerazioni implica che ci sia qualcuno che conosce un modo di trasferire principi abilitativi efficaci (estrapolandoli dai metodi validati), insegnandoli e praticandoli dimostrativamente perché vengano conosciuti e utilizzati.

Significa anche decidere in via definitiva un  impegno e responsabilità nell’applicarla ovunque e da parte di chiunque. Questo contrasta con la dottrina della “delega”.

 

2) Sull'autismo si sa giá tutto. Ora si lavori. Sciocchezza colossale.

Ciò che si sa dell'autismo é per il novanta per cento uno stereotipo, un pregiudizio. Sia sul funzionamento, sia sulla sua abilitazione.

Se vi sono riscontri di modelli applicativi domiciliari che in modo del tutto autonomo, senza bisogno di decine di operatori specializzati, impegnati giornalmente e per anni,  che  hanno realizzato ottimi outcome, significa che il modello operativo ufficiale non è l’unico possibile.

Diventa dunque opportuno avviare una revisione accurata dei bagagli teorici e operativi ufficiali e una ricerca con attenta valutazione dei knowhow diversi da quello adottato e strettamente ufficiale e bisognerá integrare tra loro le conoscenze di entrambi.

Questi casi esemplari potrebbero contenere suggerimenti molto più utili di quelli sin qui strombazzati dalla scienza ufficiale, visto cosa ha saputo risolvere. Diviene pertanto sempre più urgente integrare esperienze ufficiali e private, per diffondere un nuovo modo di abilitare che si occupi dell’autismo.

Bisognerà contemporaneamente fare pulizia di un pensare/studiare che non produce vantaggi e bagagli "operativi" spendibili per la collettività; bisogna rifiutare il know how accademico sino a quando risulterà, come succede ora, completamente scollato dal vissuto delle famiglie. Purtroppo è talmente presente, sovrastimato e diffuso da rendere secondario ogni bilancio di efficacia di quanto si continua ostinatamente a proporre. Conseguentemente ad esso abbiamo genitori esperti di genetica, diagnostica, metabolismo, associazionismo, leggi e sentenze, parole d'ordine, politica, architettura, economia, organizzazioni logistiche ma pronti ad annoiarsi rispetto a qualsiasi forma di impegno abilitativo, non perché intimamente indisponibili ma perché privati da sempre e pertanto ignoranti di informazioni pratiche utili, perché sono da sempre stati orfani di formatori, logorati allo sfinimento dall'inutile, ormai intellettivamente consunti impattano sporadicamente in pillole abilitative spesso complicate da terminologie oscure e somministrate da stravaganti interpreti del poco più del nulla che li paralizzano in un ruolo di angusti questuanti.

La stragrande maggioranza degli esperti di autismo non è esperta di “pratica abilitativa” ma si occupa di ricerca, teoria, insegnamento, informatica, statistica, ecc. , tutto tranne che sapere cosa suggerire di utile a un genitore quando é in difficoltà o va in disperazione, che conoscere come insegnare la stabilizzazione, l'attentivitá, persino singole e banali conquiste per i loro pazienti, i nostri figli. 

 

La dimensione privata suona quasi "nuova" se si pensa che su essa si dovrebbe conseguentemente ribaltare, al contrario di quanto succede, la massima percentuale delle erogazioni (economiche ed umane) per l’autismo. 

 

3) Abbiamo finalmente un metodo abilitativo "scientifico" e per questo meritevole di un primato in validità. Basta applicarlo intensivamente sempre che vi sia personale specializzato a somministrarlo e personale specializzatissimo a controllare.

 

 A ben vedere l’attribuzione di scientificità (ripetibilità e misurazione) si riduce essenzialmente ad una presa dati per una ipotesi di ricerca che (per se stessa) diventa sufficiente  sostegno della validità del metodo secondo cui si sviluppa il trattamento adottato su scala nazionale. Tale coerenza viene per contro negata per altri metodi (che semplicemente mancano a loro sostegno di dati e pubblicazioni simili). Usando una serie (peraltro considerevole) di studi (su singole attività estrapolate dalla tecnica abilitativa adotta)si dimostra l’efficacia delle singole pratiche che per sommatoria (di pubblicazioni di singola efficacia) trasformano il metodo in scienza.  

 

L’ultimo escamotage per sostenere la scientificità e quindi l’assoluta validità di un metodo, evitando accuratamente che valutazioni complessive e finali, di una sua applicazione longitudinale su gruppi di persone selezionate, inficino la bontà di quanto proposto, consiste nel tralasciare la visione d’insieme dello sviluppo, integrabilità, autodeterminazione, autonomia, ecc. che il gruppo in esame ha raggiunto e si esaminino invece alcune abilità acquisite (dopo somministrazione di tecniche a valenza iniziale mnemonico-visiva). Si valutano una per una, singolarmente per specifici settori, Ci sono? Ok, il metodo è replicapile nella sperimentazione fatta e quindi l’approccio va bene per tutti e per tutto. Questo surrogato di successo è il trend valutativo che ci viene attualmente garantito per promuovere l'abilitazione utilizzata.  Ciò che dovrebbe offendere ognuno di noi, è che nessuno (dell’apparato) si sia davvero impegnato a respingere la puntigliosa imposizione di una Abilitazione che anzichè puntare al globale si riduce ad un almanacco di singoli minimi traguardi, già in partenza poco significativi, viste le regole che si rendono necessarie per il loro manifestarsi, ecc. Come potrà questa mentalità accademica minimalista risolvere il limite pervasivo che inficia il compenso finale degli autistici… o impegnarsi nel ricercare la globalità nell'abilitazione e infine una “diversa” abilitazione, specifica per l’autismo?

 

Con questo tipo di dati sostengono mere ipotesi esplicative del patologico (mai dimostrate) e confermano le teorie che sostengono le applicazioni stesse (AF). Aver attribuito un numeratore al “taco; taco” non legittima però il primato assoluto della proposta educativo-abilitativa in questione.

 

“taco taco” Esemplificazione riferita al film Paulie. Un Pappagallo che parlava troppo (John Roberts 1998 http://www.movshare.net/video/82f063af4fdf5 ). Un pappagallo in grado di parlare svolazza casualmente vicino ad un’adorabile pappagallina e le dice “Ciao, sono Paulie, mi puoi aiutare?, mi sono perso.” e si sente rispondere. “Ohi, mi chiamo Lupe, sono una pappagallina muj bonita ”.Paulie, felicissimo di aver trovato una pappagallina speciale quanto lui, la segue sino alla casa dell’addestratore, dove Lupe si posa con altre adorabili pappagalline. Paulie il pappagallo parlante chiede all’ammaestratore spiegazioni su dove sia capitato. Gli viene risposto che è a Los Angeles e l’ammaestratore stupito continua, “ma tu parli?“  e Paulie replica “Mi prendi in giro? Anche loro parlano” “No,” risponde l’addestratore indicando i pappagalli di sua proprietà,  “loro non parlano. Io dico taco e loro dicono taco” e loro in coro “taco, taco, taco”- Abbiamo usato questo esempio senza riferimenti diretti, ma perché l’abilitazione sia osservata per quello che è e non per quello che sembra. A volte le procedure vengono memorizzate e replicate assai bene, contesto per contesto, situazione per situazione ma spesso, troppo spesso, l’attività, la comunicazione, l’esperienza pur correttamente replicata è priva di qualsiasi consapevolezza, dominio, autodeterminazione, autonomia decisionale, ecc. Questa abilitazione, questa comunicazione è e resta un… taco, taco.

 

In nome di questa presunta scientificità, i metodi attuali si autogiustificano nella massiccia, quanto poco interessante, presa dati (anche questi infine poveri di fatto in valore intrinseco, rigore comparativo e complessivo). Nonostante queste considerazioni, la pratica di numerare ciò che accade autoreferenzia, item, dopo item, una serie di modalità di insegnare-apprendere competenze che, pur importanti in se stesse, rischiano di far perdere il senso ultimo da loro posseduto ovvero dell’abilitazione psico-intellettiva ricercata. Si hanno bambini che fanno, collaborano, memorizzano... ma non pensano e che... restano difficili.

L’abilitazione che dovrebbe mirare alla conquista e all'uso di competenze opportunamente scremate e individualmente utili, utilizzabili in autodeterminazione, in consapevolezza di sé e del mondo, in relazione e comunicazione reciproca e in autocontrollo, è ancora una metà da raggiungere. Pur sapendolo nessuno cerca un’abilitazione specifica dell'autismo.

 

4) Ciò che conta sono le competenze.

Grande limite concettuale della proposta abilitativa attuale.

Tutti si impegnano ad enfatizzare quanto più possibile l'abilitazione dell'apprendere che, applicata all'autismo, permetta di fissare qualcosa (ma purtroppo restando autistici).

Poco si pensa ad una abilitazione che impedisca all'autismo di render così difficile l'apprendere cose.

Nessuno va oltre quanto propone il trend. Nessuno fa domande.

All’affacciarsi pervasivo e incombente del patologico nella quotidianità, persino nei ragazzi "appartenenti al gruppo che ha ricevuto l'abilitazione", si contrappone il simulacro procedurale di una normalità insegnata-appresa ma mai sufficientemente compresa e dominata. Alla ricerca della soluzione si preferisce la sua maschera… spesso grottesca.

I dati raccolti inoltre non sempre hanno un punto di convergenza definito (quanti supervisor li raccolgono davvero e, a che scopo, se tutti lamentano la perenne loro defezione e la scarsità di monitoraggio di ogni intervento), di elaborazione competente e il loro senso si disperde nell’effetto placebo che sta nella loro raccolta. 

L’attendibilità e il valore complessivo stesso delle pubblicazioni in letteratura riguardanti l’autismo sono già state contestate per metodo e conclusioni da esperti di spessore mondiale (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK107275).

La scarsa efficacia finale del trattamento educativo comportamentale nel suo insieme e soggetto per soggetto, per come è oggi somministrato, non viene mai sufficientemente evidenziata e discussa.

 

La "fragilità" della proposta non è dovuta a limiti d'esordio (le tecniche cognitivo comportamentali sono conosciute e migliorate da decenni) ma piuttosto a carenze teoriche intrinseche al trattamento stesso (nato per altro dall’autismo) quando applicato all’autismo.

A questo si aggiungano i limiti di una sua somministrazione spesso scriteriata per scarso spessore delle valutazioni e dei controlli atti ad avanzare correttamente. Si lamenta una generale scarsità qualitativa effettiva degli obiettivi definiti come “raggiunti” (ricorre un perenne stazionamento a un livello basico) che non sono poi reali acquisizioni. Ci si lamenta spesso di un assente monitoraggio che mantiene la prassi educativa a un identico livello fino a licenziamento degli operatori stessi. La professionalità di chi applica sul campo va costruita diversamente. Sebbene esistano delle difficoltà nel controllo di operatori (più sono titolati meno sono disposti a mettersi in discussione) é proprio l'attribuzione arbitraria di un eccesso di competenze al supervisore, che lo ha trasformato nell'eterno assente. La sua ipotetica super specializzazione (che ultimamente si esige certificata), lo rende commercialmente raro e sempre più richiesto ma meno reclutabile, meno disponibile, per eccesso di impegni e richieste, sempre più costoso e infine per un verso o per l'altro inaccessibile a chi ha già intrapreso l’intervento. I non risultati rimbalzano a cascata tra gli uni e gli altri ma sempre sui gregari eppure chi ne sopporta le conseguenze è solo il paziente e la famiglia.

 

Detto questo non appare nemmeno sufficiente un "aggiustamento" in corso d'opera del singolo trattamento; aggiustamento peraltro che mal si accompagna con il protezionismo detto. Aggiustamento che dovrebbe riguardare, per potersi concretizzare, l'intero apparato che esercita tale servizio... Purtroppo però le avviate politiche sia sanitarie che di istruzione superiore ed accademica, sfornano a spron battuto una miriade di professionisti dell’educazione “specializzata,” di fatto all'oscuro di tutte queste contraddizioni e cosa ancor più grave, spesso all’oscuro di strumenti abilitativi adattati (più che specifici) all’autismo, o se informati su essi, non formati ad utilizzarli in pratica o a riconoscerne e superarne i limiti per evitare l’insuccesso. Resta il fatto che una moltitudine di nuovi professionisti, in premura di collocamento, si affacciano su un mercato del lavoro sempre meno ospitale. Per essi solamente successivamente ai titoli, si provvedono ulteriori corsi teorico-pratici il cui spessore è quello… della sopravvivenza o di come riconoscere e gestire il proprio  precocissimo  burn out.

Se l’università si concentra ancora su modelli culturali abilitativi non adeguati, seppure aggiornati, evidentemente o c’è un problema teorico (e si dovrebbe dunque smettere di considerare inesistente) oppure c’è un problema di scollamento irrisolto tra mondo reale e ricerca didattica accademico-scientifica. 

 

Per il mondo accademico non sembra che l’efficacia di una abilitazione costituisca una priorità.

Il valore irrinunciabile del vissuto, come caso esemplare per migliaia di eventi, viene meno di fronte ad una scienza che gli preferisce numeri senza risultati nel vissuto, dimostrando il brancolamento nel buio di un intero apparato chiamato a risolvere un problema. Infatti, i bambini autistici gravi di ieri sono ancora adulti autistici gravi di oggi e regolarmente scompaiono dal sociale.

 

Nonostante queste contraddizioni e riscontri quotidiani non ci si preoccupa sufficientemente dei bambini autistici diagnosticati oggi perché si dà per scontato, senza alcun presupposto credibile, che saranno assai meno gravi domani degli adulti gravi di oggi. Nascondere o negare che "il re... è denudato da decenni…"  non vuol semplicemente dire che chi ancora oggi guida le politiche sanitarie e sociali della disabilità autistica ha delle responsabilità passate (di insuccesso abilitativo) ma anche che, queste stesse guide, rischiano di averne di future in quanto stanno ostinatamente occupando gli stessi posti e condizionando (sulla base delle loro scelte passate e dei conseguenti loro bisogni attuali) persino quelle prossime venture.

 

Se c'è un problema sociale da gestire (gli adulti) c'è un fallimento ideologico ed educativo che lo sostiene.

 

Dire, dunque che il re é e resterà nudo ancora per molto… è una verità sgradita ma doverosa, rispetto a chi si affaccia alla problematica oggi. Imporre "maestri" da un così disadorno pulpito non può che trovare scarsa partecipazione e tolleranza.

A fronte di questo conosciuto si hanno incomprensibili conferme continue di una diffusa intolleranza per uomini e idee impegnati ad evidenziare la farraginosità dell'attuale operare, sia nei principi che nel merito. Constatare limiti non dovrebbe preoccupare ma incoraggiare a migliorare gli indirizzi e le prassi e, seppur atteggiamento anacronistico rispetto alla moda del precipitarsi a "fare", porterebbe a rivedere criticamente le offerte e  avvierebbe l’opportunità di fermare l’escalation dei costi per ottenere quello che già ora si può constatare che non funziona, sempre che l’obiettivo comune sia il contrasto all’autismo e non il banale "sollievo" parentale e sociale di esso.

 

Quali critiche costruttive?

 Tanto per cominciare:

- diffondere più chiarezza sulla sindrome e sulla possibile sua evoluzione (nel bene e nel male) evidenziando i dubbi sulle poche certezze e andando cauti sugli stereotipi. Questo per aprirsi all’imprevedibile e ad un studio senza paraocchi.

- diffondere un impegno abilitativo costante. Autism Europe ha ribadito: Terapia è educazione.

- spiegare limiti e pericolosità della "delega" e del riporre eccessive attese in questa

- responsabilizzare chiunque dando competenze chiare e serenità, liberando chi è coinvolto nella presa in carico dal capire in proprio perché questo, perché quello avviando una lettura psicologica personale del patologico che non ci porterà da nessuna parte  

- evidenziare la necessità di un surplus di impegno che dovendo essere speso comunque, produrrà miglior risultato se arricchito di schemi abilitativi; far capire cioè che l’inevitabilità dell’impegno obbliga, ogni responsabile di una presa in carico, alla scelta di uno sforzo abilitativo importante e non di una semplice e spontanea gestione fai da te della difficoltà incontrate (perché gestire senza abilitare-educare, provoca peggioramento).

- mostrare che il fai da te se non é abilitazione coincide immancabilmente con l'adeguarsi all'autismo, subirne il giogo e le logiche patologiche, restando nell'autismo anche se assomiglia alla quiete. Essere degli artificieri delle bombe comportamentali non significa automaticamente aver risolto il disfunzionamento autistico  ma spesso tutelarne l'espressione più profonda

- aver il coraggio di aggiustare le tecniche di insegnamento quando gli apprendimenti assomigliano ad apprendimenti ma non lo sono

- informare che c’è un modo semplice e accessibile a chiunque di abilitare-educare che è quello di applicare alla quotidianità principi semplicissimi di proporre e proporsi, di ingaggiare e chiedere, di far fare e copiare, di comprendere ed eseguire…ecc. Senza bisogno di mondi speciali, di esperti del taco taco da pagare per anni…

- sollevare dalla paura i caregiver di poter fare dei disastri (se si sbaglia ci si corregge) e far comprendere che non c’è bisogno di ricorrere a nugoli di prezzolati esperti del momento per capire e risolvere questa sfida

- prendere in considerazione l’opportunità di non doversi trasformare in adepti di una chiesa per poter fare abilitazione.

- diffondere l'approccio cognitivo comportamentale spiegando che non automaticamente si declina e si risolve in Aba-VB; spiegando che se pure questo approccio permette grandi conquiste chiunque può facilmente carpirne i segreti e capire come ottenere altrettanto senza dover pagare gli officianti di un lussuoso rito abilitativo. Dobbiamo porre attenzione ad aprire le porte dei metodi utilizzati al pensiero, alla consapevolezza, al piacere, alla motivazione di apprendere e sperimentare adattivo, dei nostri figli. Dobbiamo contrastare strategicamente, per quanto si può (meglio se costantemente) ogni forma del disfunzionare autistico assicurando la comprensione del vantaggio di allontanarsene e di controllare questa propensione spontanea ad un certo patologico.

- definire una volta per tutte i compiti dei protagonisti della "presa in carico".

 

La sanità dovrà indicare ciò che é "autismo" e come si gestisce la dimensione squisitamente clinica della sd. (evitamento, stereotipie; adesività; immutabilitá; ecc.). Spetta al pediatra, al neuropsichiatra, allo psichiatra la prima informazione su come riconoscere, distinguere e contrastare il disfunzionamento autistico ovvero l’espressione patologica della sindrome. Questa formazione in conoscenza e gestione è essenziale e dovuta. In mancanza di queste nozioni il medico si riduce ad un burocrate o peggio ad uno sperimentatore di farmaci inutili sui ns figli.

La scuola cosa deve saper ottenere? Deve impegnarsi su obiettivi prescolastici e scolastici. Deve conoscere ogni tecnica per stabilizzare, ottenere attenzione, prendere il controllo, insegnare apprendere. Deve conoscere e saper ottenere gli obiettivi per ogni autistico. Deve anche sapere come disfunzionano e come si gestisce, controlla e contrasta il disfunzionamento autistico (stereotipie, adesività, immutabilità, il controllo patologico ambientale , i comportamenti patologici operanti dell’evitamento in ogni loro forma).

La famiglia, cosa deve fare per rendersi coerente con il ruolo che le si riconosce?

Deve occuparsi di tutto, vale a dire della globalità dello sviluppo fisico psicologico, emotivo, intellettivo del bambino guidandolo coerentemente attraverso le tappe per lui essenziali e rendere il mondo che lo accoglie coerente con la sua età anagrafica ma rispettoso della sua difficoltà psicologica. Deve coordinare il lavoro di ogni altro caregiver verso uno scopo finale complessivo, richiedendo specificità e responsabilità di coinvolgimento in modo che ognuno abbia un compito valutabile da percorrere e trasferire. I genitori sono i maestri d’orchestra di una sinfonia complessa con un traguardo il cui valore li riguarda enormemente. 

 

Solo dopo aver capito questi postulati potremo occuparci di quali tecniche servono, dove si apprendono e come si somministrano per realizzare detti compiti.

- abbandonare quanto prima l’uso di una terminologia d’elite (anglo-americana) se non la si comprende e domina, se diventa schema abilitativo educativo così complicato da abbandonarlo o doversi rivolgere ad esperti obbligandosi ad essi.

- far comprendere che c’è un’abilitazione facile da capire e praticare che si avvale degli stessi metodi ma non ne diventa dipendente

- diffondere schemi di lettura universali delle attività patologiche per non perdersi nelle interpretazioni del patologico, per saperlo contrastare e risolvere e per non giustificare od ostinarsi a dare un senso adattivo all'orrore e al suo ripetersi perché non lo ha. 

 

Questo significa (per esperti e docenti ritornare sulla clinica) ridefinire in termini generali il significato clinico e il contenuto sintomatico del “disfunzionare autistico”, aumentando la conoscenza di ciò che accomuna queste persone, al di fuori delle particolarità di ciascuno. Abbandonare la logica degli “autismi” che non sono che un gioco agli specchi fuorviante e moltiplicatore che ci allontana attraverso l’individualità abbacinante dal vero problema: l’Autismo.

Bisogna definire in modo semplice quale sia il “modus operandi” tipico di una persona con autismo per saperlo riconoscere, insegnare a non averne paura, saperlo contrastare e risolvere (concentrarsi meno sui settori di carenza dello sviluppo psico-intellettivo e più sul disfunzionare tipico, sapendo come smontarlo facilmente in chiunque e non soggetto per soggetto) perché "non di sole competenze vive l'abilitazione".

- smettere di mantenere in un ruolo strettamente secondario il trattamento del "funzionamento autistico" rispetto al costruire  “competenze”.

Si continua purtroppo a privilegiare (nell’ottica pedagogica che resta la prevalente) l'insegnamento di competenze rispetto a qualsiasi abilitazione del disfunzionare autistico. Quest'ultima modalità, ideativa e comportamentale, trasversale e incombente, viene "trattata" solo se supera un limite soglia di tollerabilità (attualizzata e contestuale), dimenticando che tale andamento "patologico" c'è, indipendentemente dalla forma che assume, e costituisce l’essenza della problematica e che pertanto andrebbe sempre preso in considerazione e trattato. Ricordare che questo disfunzionare impedisce l’apprendere e lo sperimentare, ritarda lo sviluppo e permea di sé le “competenze” ed è questo condizionamento che le rende poi inefficaci, anche se possedute o apprese, e che rende oltremodo difficile l'abilitazione stessa. Questo aspetto dovrebbe divenire dunque il target abilitativo primario.

- Individuare quali aspetti clinici e sintomatologici generali non sembrano risolversi con l'apprendimento di competenze e la prosecuzione naturale dello sviluppo, ovvero quali “liet motive” ideativi, relazionali e comportamentali patologici vanno a costituire, non tanto il ritardo di sviluppo e quello intellettivo, ma il permanere di un “difetto di compenso ”(sia post che sine abilitazione) che impedisce un destino decente a queste persone.

-  meditare la frase di C. Barthelemy (Catherine Barthelemy, responsabile Centro Autismo di Tour (F) e autrice con Lelord del testo Terapia di Scambio e di Sviluppo), "se volete salvarli, toglieteli da qualsiasi confusione"

- far capire che non é assolutamente vero che ci sia la necessità di professionalità elevatissime per effettuare i periodici test valutativi di una qualsiasi terapia individualizzata ridimensionando le convinzioni che senza questi ogni contraddizione intellettivo comportamentale non avrebbe soluzione.

- formare professionalità sbilanciate su competenze "pragmatiche" perché quelle teoriche valgono assai poco visto cosa hanno saputo produrre.   

Immergere gli operatori in esperienze in progress, in parallelo ad operatori già esperti (alternando loro situazioni individuali profondamente diverse, da affrontare separatamente una dopo l'altra a distanza di poche ore, per cogliere l'andamento comune, per cogliere cosa contrastare e avere così a disposizione armi comuni, pass pour tout da trasferire ad altri operatori o caregiver avviando così un'abilitazione dall'autismo e non un semplice apprendere "individualizzato" quanto manca.

- formarsi nei vissuti (anche vincenti) per poter formare professionisti, operatori, genitori, al compito abilitativo, non solo in teoria e ricerca.

- contrastare l'autismo significa possedere un pret a porté per affrontarlo e venirne a capo. Se chi dovrebbe possederlo per spiegarlo a genitori e studenti, non lo possiede, si faccia da parte. Chi ha fallito, si faccia da parte.

- ripensare a tutte le proposte che ghettizzano l'autismo, che lo recintano, che lo risolvono "a parte"; sono semplici ammodernamenti di facciata di un passato che si dovrebbe respingere. Sono tributi  edulcorati all'orrore, indipendentemente dal lusso e dai colori delle pareti.

Quale errore propositivo è contenuto nella frase, "gli autistici non debbono stare con autistici", eppure da fastidio. Siamo in un mondo dove ovunque si invocano spazi dedicati...ma solo ad essi. Giurando una integrazione che verrà (dopo opportuno confinamento e cura), integrazione con normodotati proclamata ma sottomessa all'impedimento contenuto nel gap comportamentale regolarmente incolmabile.

Nessuno sembra accorgersi che il trend progettuale attuale é "gli autistici tra i loro simili!!!" a scadenza allineati tra file di operatori zelanti, obbedienti come le famose mucche da recintare e guidare per non abbandonarle alla paura (della Temple Grandin che, in una apparente conquista adattiva, esprime invece il suo autismo e torna in esso").

-       costruiamo una abilitazione nuova, che vada ben oltre una serie precisa di attività da imparare individualmente, ma che riesca a non costringere i nostri figli a restare autistici, tra autistici, collettivamente.

 

      L'impegno comune a risolvere l'autismo non dovrebbe accecare i protagonisti di questa sfida e nemmeno negare la necessità di porsi in modo disincantato rispetto a quanto infine accade davvero al di là del compattarsi intorno a un impegno rendendolo sostenibile e produttivo.

 
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