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Il lavoro come proseguimento dell’integrazione scolastica: il caso dell’autismo


Daniela Mariani Cerati
già dirigente medico SSN
segretaria del Comitato Scientifico dell’ANGSA


A partire dagli anni ’70 sempre più la funzione della scuola si è andata sganciando da quella classica dell’imparare a leggere, scrivere e far di conto. Accogliendo bambini sempre più gravi e poco propensi ad acquisire le tradizionali nozioni scolastiche, la scuola è diventata sempre più scuola di vita e di socializzazione, aperta anche a chi non avrebbe mai imparato a leggere e scrivere.

E’ così maturata una nuova filosofia e un nuovo stile formativo: un insegnamento personalizzato, adattato come un vestito su misura agli specifici bisogni educativi di ogni scolaro. Questa logica, portata con forza nella scuola dalla presenza di bambini disabili, è poi andata a vantaggio di tutti. Questo per diversi motivi: l’attenzione alle esigenze educative di ogni singolo studente è un concetto valido per tutti e l’abitudine a ragionare in questo modo per il disabile porta poi ad una maggiore sensibilità anche nei confronti di ogni singolo bambino; in secondo luogo, ci si rende conto che avere un bambino disabile diventa un’opportunità educativa a tutto campo per tutti i compagni, se la situazione viene sfruttata al meglio da insegnanti motivati e competenti.

Le leggi italiane sull’integrazione hanno superato, per spirito di apertura e accoglienza, tutti gli altri paesi.

Ma i bimbi crescono e, nella maggior parte dei casi, la disabilità rimane: se il luogo naturale dove un bambino incontra i coetanei è la scuola, in età adulta alla scuola dovrebbe sostituirsi un posto di lavoro.

Vediamo cosa avviene in Italia per una categoria particolarmente sfortunata di disabili: gli autistici.

Nelle parole di Francesco Campagna1 “I bambini di cui ci si è occupati con tanto impegno crescendo sembrano sparire non solo negli interessi degli studiosi, ma anche dal contesto sociale. Mantenere l’ottica dell’approccio riabilitativo tradizionale che si pone come obiettivo quello della guarigione rende inefficace qualsiasi intervento poiché questo obiettivo è irraggiungibile. Tale constatazione porta spesso alla totale rinuncia a qualunque trattamento e l’intervento si riduce ad una semplice assistenza”

Gli autistici hanno una grave compromissione della qualità della vita, ma non della sua lunghezza, per cui occuparsi delle varie fasi della vita e non solo dell’infanzia dovrebbe essere cosa logica e doverosa, ma, come dice Campagna, essi scompaiono dagli interessi di tutti: studiosi e operatori sociali. Pochi sono i ricercatori che hanno compiuto studi epidemiologici sugli autistici in età adulta in Italia. Uno di questi è Stefano Palazzi che ha cercato, con non poca fatica, di identificare gli autistici adulti presenti nella regione Lombardia alla fine degli anni ‘90.

La situazione descritta al 4 giugno 1999 ( www.autismo.it) per gli adulti autistici è la seguente: un terzo si trova in istituti assistenziali, dove l’inserimento lavorativo è di livello zero, ovvero inesistente. Questi soggetti non hanno sviluppato nessuna abilità, non possiedono nessuna autonomia e sono incapaci di qualunque forma di socializzazione

I restanti due terzi sono inseriti nei centri socioeducativi e riabilitativi e nelle comunità agricole. L’autore chiama questo inserimento lavorativo di livello primo e i soggetti che ne fanno parte sono caratterizzati da grave ritardo e gravi comportamenti problema.

Nessuno degli autistici adulti identificati nello studio di Palazzi aveva un inserimento di livello superiore, ovvero un’attività sicura in un centro di formazione professionale , o un’attività supportata, come quella di una borsa lavoro o, tanto meno, un’attività produttiva a livello competitivo sul mercato, pur con un’assunzione protetta.

A conclusione del suo studio Palazzi afferma: “Dei 145 casi adulti di cui si hanno dati sufficienti, la stragrande maggioranza è di livello funzionale tragico per tutte le mansioni della socialità e dell’autonomia”

Questa situazione è ascrivibile in primo luogo alla gravità della patologia, che si nasconde all’osservatore in età infantile, quando il bambino si presenta bello, senza difetti fisici, con lo sguardo vagamente assente ma apparentemente assorto in pensieri profondi, mentre diventa evidente in modo inequivocabile in età adulta.

Volgendo uno sguardo a livello internazionale, esistono esempi di autistici che hanno avuto esiti migliori?

Il programma di Stato della Carolina del Nord, noto con l’acronimo TEACCH (Treatment and Education of Autistic and Communication Handicapped Children)2 , ha il merito di avere dato, nell’arco di quasi quarant’anni di attività, risultati non trionfali, ma buoni e riproducibili, nel senso che gli stessi risultati sono stati riprodotti dovunque l’approccio TEACCH sia stato importato.

Lo staff di educatori del TEACCH, sotto la guida illuminata di Eric Schopler, ha iniziato a lavorare nel 1972 con bambini piccoli, utilizzando un approccio educativo personalizzato basato su una valutazione, ripetuta nel tempo, del profilo dei punti di forza e di debolezza di ogni bambino, da cui emergeva un programma educativo che veniva via via aggiornato nel corso degli anni, senza soluzione di continuità tra l’età evolutiva e l’età adulta.

L’orientamento di questo gruppo è molto vicino al modo di sentire italiano in quanto vi è sempre stata fin dall’inizio una grande tensione verso l’integrazione nella scuola e nella società (mainstreaming). Fedeli a questa premessa, quando la coorte dei bambini seguiti dall’infanzia ha raggiunto l’età adolescenziale ed adulta, sono nati, a partire dal 1989, modelli di integrazione lavorativa adattati alle caratteristiche peculiari dei singoli soggetti.

Gli operatori del TEACCH hanno sempre affermato che, allo stato attuale delle conoscenze, il loro approccio, che segue l’individuo a tutto campo, trasversalmente e longitudinalmente, dalla culla alla tomba, non ha mai guarito nessuno. Il loro sforzo pertanto, che tende ad ottenere quanto oggi è possibile, in assenza di terapie risolutive, tende ad adattare il più possibile l’individuo all’ambiente e l’ambiente all’individuo, intendendo per ambiente sia quello fisico che quello umano.

Consapevoli del fatto che il bambino autistico sarà purtroppo un adulto autistico, ma senza rinunciare all’ideale dell’integrazione nell’arco della vita, Schopler e collaboratori consigliano di iniziare precocemente, sin dall’età di 10 anni, a cercare di individuare per ogni soggetto quale attività lavorativa potrebbe svolgere da adulto. Il tipo di attività possibile emerge dal profilo di abilità, dai punti di forza e dagli interessi, anche maniacali, di ogni individuo.

Come logica conseguenza della valutazione individuale nel programma educativo viene compreso, tra le altre cose, un precoce addestramento a mansioni lavorative, in preparazione ad un’attività lavorativa nella vita adulta che prosegua l’integrazione preparata con la scuola.

In continuità con quanto avviene in età evolutiva la Division TEACCH, che fa parte dell’Università di Chapel Hill e che è finanziata dallo Stato della Carolina del Nord, è in collegamento con diverse aziende e realtà lavorative sparse in tutto il suo bacino di utenza, lo Stato stesso.

La formula con la quale i soggetti con autismo vengono inseriti nel lavoro è chiamata “supported employment” “lavoro supportato” e, a differenza di altre disabilità, per le quali il supporto è presente all’inizio, ma poi scompare, in questo caso il supporto rimane nel tempo. Un operatore della Division TEACCH, detto “Job coach”, è presente durante tutto l’orario di lavoro e a tempo indeterminato con un rapporto fra educatore e utenti che varia da 1:1 per i casi più gravi a 1:15 per i casi meno gravi. Questo è reso necessario, per i casi a più alto funzionamento, dalla instabilità del carattere, dalla constatazione realistica che comportamenti problematici possono verificarsi in modo imprevedibile per tutti gli autistici e che, pertanto, in assenza di un supporto costante e disponibile in fretta al bisogno, il lavoro verrebbe facilmente perso anche in presenza di buone capacità lavorative .

Il livello di supporto da erogare al singolo individuo emerge dalla valutazione compiuta nel passaggio dalla scuola al lavoro.

Per i soggetti più dotati vi è un educatore per ogni 10-15 soggetti . Questi lavorano in modo indipendente in posti di lavoro tra loro lontani.

All’inizio, per un periodo di 2- 8 settimane, l’educatore lavora a tempo pieno con l’utente con la doppia funzione di insegnargli tecnicamente il lavoro e di aiutare i colleghi a capire ed accettare il nuovo “lavoratore” con le sue potenzialità e i suoi limiti.

In seguito il soggetto rimane solo con i naturali colleghi e l’educatore viaggia da un’azienda all’altra per supportare a turno i 10-15 soggetti a lui affidati e i rispettivi colleghi.

Le ore settimanali di supporto vanno da una a sei a seconda del fabbisogno specifico dell’utente, dei colleghi o di difficoltà intrinseche al lavoro.

Il livello del supporto può diminuire o aumentare a seconda delle necessità, che nel tempo possono cambiare

In questo modo l’educatore è in grado di minimizzare o di prevenire i problemi che inevitabilmente sorgerebbero, in sua assenza, dalle gravi difficoltà di comunicazione che purtroppo, allo stato attuale, persistono anche dopo il migliore percorso educativo.

Questo modello, che è nato 15 anni fa, si è mostrato efficace non solo per trovare il lavoro, ma anche e soprattutto per mantenerlo .

Per il gruppo degli autistici più dotati che usufruiscono del supporto ora descritto lo stipendio e i contributi sono uguali a quelli degli altri lavoratori. I tipi di lavoro che sono stati svolti con successo sono i seguenti: lavori d’ufficio, biblioteche, stoccaggio, magazzini, computer, laboratori, cucine e altri lavori finalizzati alla produzione e commercializzazione di generi alimentari.

Questo modello è valido per i soggetti più abili, ma il gruppo TEACCH non rinuncia all’integrazione neanche per i meno abili, fornendo il job coach con un rapporto fra educatore e utenti che arriva fino all’uno a uno per i più gravi, passando attraverso tutti gli stadi intermedi.

Vediamo da vicino il modello uno a uno.

Il reperimento dell’azienda adatta ad accogliere la coppia autistico-educatore viene fatto direttamente dalla Division TEACCH che vi colloca l’individuo per il quale si ritiene adatto quel tipo di lavoro e poi fornisce l’educatore, che sarà presente per tutte le ore lavorative a tempo indeterminato.

L’educatore adatta e modifica la struttura ambientale in modo da andare incontro alle peculiari esigenze del “lavoratore”, esattamente come si fa, nelle età precedenti, nella scuola.

Per favorirne al massimo l’indipendenza e l’autonomia , d’accordo con i colleghi e i responsabili, l’educatore adatta i tempi, i programmi di lavoro e l’ambiente alle sue esigenze, ad esempio mettendogli vicino degli schemi visivi che lo aiutino a svolgere il lavoro nel modo più autonomo possibile.

Uno dei compiti più importanti dell’educatore è fare da tramite tra l’assistito, che possiede scarsissime capacità comunicative, e i colleghi. Inoltre, poiché il lavoro a lui affidato è un lavoro vero, l’educatore deve assicurare che venga portato a termine con la qualità richiesta e nei tempi previsti. Se poi l’individuo si agita, dimostra angoscia o malessere, lo aiuta a mettere in atto quelle tecniche che si sono dimostrate efficaci a favorirne il rilassamento.

Sorprende che questo modello sia nato in America e non in Italia , dove la filosofia dell’integrazione e le conseguenti leggi scolastiche sono note nel mondo per essere le più aperte e accoglienti.

Nella generalità dell’Italia si è assistito ad una sorta di schizofrenia, almeno per i disabili mentali gravi: massima integrazione nella scuola, seguita dai centri socioabilitativi in età adulta. Non si vuole con questo disprezzare lo sforzo abilitativo e la qualità di molti di tali centri. Si fa semplicemente notare che essi non rispondono alla logica dell’integrazione per favorire la quale in quasi tutte le regioni, come l’Emilia Romagna, si sono soppresse le scuole speciali, anche di buona qualità, in nome dell’integrazione.

La realtà della situazione degli adulti autistici in Italia è poi ancora più complessa. Come risulta dall’indagine di Palazzi in Lombardia e da altre indagini italiane, come quella compiuta in Emilia Romagna3, in età adulta gli autistici scompaiono: in Emilia-Romagna la frequenza sulle rispettive coorti di età passa dal picco di 0,5 su mille fra 4 e 5 anni di età a 0,05 su mille fra i 18 e i 29 anni, per poi tendere a zero oltre i trent’anni. Tra i disabili intellettivi adulti risulta una quota di autistici trascurabile, a differenza di quanto avviene per l’età scolare, in cui la prevalenza è quella attesa in base a quanto noto dagli studi internazionali: 1 o 2 per mille a seconda del rigore con cui si applicano i criteri diagnostici.

Dal momento che di autismo, allo stato attuale, né si muore né si guarisce, da quanto sopra si evince che i bambini autistici, col raggiungimento dell’età adulta, perdono la diagnosi, che viene sostituita con quella generica di “handicap mentale” adulto, talvolta addirittura di handicap e basta, dimenticando che la diagnosi non è fine a se stessa, ma comporta delle indicazioni riabilitative sulla gestione della persona, che si trova a suo agio solo se messa nella situazione ambientale e umana compatibile con le sue peculiarità. A tutti è noto, ad esempio, che gli autistici si sentono a loro agio in un ambiente altamente strutturato e protetto dall’eccesso di stimolazioni fisiche e sociali4, indipendentemente dalla loro età. Nell’ottica poi di un’abilitazione permanente che non si arresti con l’età evolutiva, se il soggetto perde la diagnosi, difficilmente continuerà a ricevere quel tipo di abilitazione di cui avrebbe bisogno e che dovrebbe essere specifica per la sua disabilità, a volte di segno contrario rispetto ad altre. Ci riferiamo ad esempio all’opportunità di non sottoporre gli autistici, cronicamente affetti da ipereccitazione, ad eccessive stimolazioni, cosa che invece può essere opportuna per altre disabilità intellettive in cui la situazione di base è diversa o addirittura opposta.

Con queste premesse, se desideriamo vedere dove e quanto ci si è sforzati di tenere fede anche in età adulta all’ideale dell’integrazione, dobbiamo cercare esperienze compiute con disabili mentali gravi, tra i quali forse sono presenti anche adulti autistici che hanno perso per strada la diagnosi iniziale. Un esempio di coerenza tra affermazioni di principio e prassi di integrazione lavorativa ci viene dal gruppo dell’ASL 3 di Genova guidato da Enrico Montobbio. 5 6

Fin dagli anni 70, in concomitanza con le leggi sull’integrazione scolastica, il gruppo genovese ha iniziato un’opera di integrazione lavorativa dei disabili intellettivi.

Nel 1976 si è costituito il primo SIL (Servizio Inserimento Lavorativo ) ed è stata istituita la figura dell’operatore della mediazione al lavoro, del tutto analoga al “job coach” dell’esperienza statunitense.

Si è quindi perseguito un progetto di mediazione al lavoro con l’inserimento in posti di lavoro pubblici di disabili intellettivi che prima frequentavano dei laboratori protetti.

Le prime trenta esperienze si sono concluse addirittura con l’assunzione. I risultati sono stati superiori alle attese. Sono stati rilevati importanti apprendimenti nella sfera cognitiva e maturazione nella struttura della personalità. Questi cambiamenti risultavano più evidenti e più rapidi di quelli prodotti dai laboratori protetti.

Questo primo successo ha incoraggiato i suoi promotori ad estendere l’esperienza a fasce di disabili via via più gravi per cui, qualche anno dopo, si è giunti al progetto ILSA, acronimo che significa “Inserimento Lavorativo Socio Abilitativo”, per realizzare il quale il Comune di Genova ha approvato, il 28/12/1982, la delibera: “Inserimenti in settori operativi del Comune di Genova di Handicappati psichici in posizione di non lavoratori”

Il gruppo genovese ha avuto una parte importante nell’ispirare e favorire l’ottima legge 68 del 12 marzo 1999, che segna un notevole progresso nel favorire l’acceso dei disabili al lavoro, ma che non affronta la tematica del lavoro in funzione puramente abilitativa per soggetti incapaci di diventare produttivi, quelli per i quali Montobbio aveva coniato il termine di “non lavoratori”

Troviamo invece lo spirito della Division TEACCH e del gruppo genovese nel “ protocollo operativo per l’inserimento al lavoro dei disabili ex L. 68/99 con particolare attenzione ai casi complessi e multiproblematici” emanato dalla Provincia di Bologna il 28 aprile 2004.

In tale protocollo all’articolo 5 si legge: “I Comuni e le AUSL hanno competenze rilevanti che necessariamente sostengono un efficace intervento riabilitativo di inserimento e che si articolano in due ambiti:…quello, di sostegno alla transizione al lavoro intesa non necessariamente come inserimento nel mercato del lavoro, ma piuttosto come fase di un più generale processo di cura e reinserimento sociale, alternativo ad una precoce istituzionalizzazione.

Questa tipologia di intervento prevede l’attivazione di borse lavoro a contenuto riabilitativo, con orari e modalità personalizzate; attività formative ed educative che prevedano la presenza di figure di tutor e di mediazione sui luoghi di lavoro……..Le borse lavoro possono essere finalizzate all’assunzione o essere parte di un processo riabilitativo.” Le prime vengono definite di tipologia 1 e le seconde, a fine di abilitazione e integrazione sociale, di tipologia 2.

Questa cornice normativa rende possibili esperienze analoghe a quelle descritte per la Carolina del Nord e per il Comune di Genova in quanto la regolamentazione del lavoro prima vigente, nata per proteggere i lavoratori dallo sfruttamento, impediva anche la sola presenza di soggetti poco produttivi, e non inquadrabili come veri lavoratori, in quello che è l’ambiente naturale di vita per buona parte della giornata degli adulti dai venti ai 57 anni.

La presenza di questo protocollo ha reso possibile una prima esperienza di “lavoro supportato” analoga a quelle descritte nel modello uno a uno dell’approccio TEACCH, che sarà oggetto di una trattazione a parte

A questo punto è doveroso fare una riflessione di fondo, andando a monte del problema lavorativo, per
chiedersi quale significato esso abbia in rapporto alla qualità di vita dei disabili mentali gravi, spesso incapaci di esprimere i loro sentimenti e di analizzare il loro stato d’animo.

Quando parliamo di soggetti con autismo, ci riferiamo a persone affette da una disabilità gravissima, che colpisce in modo pervasivo le abilità più profonde dell’essere umano: la comunicazione, l’interazione sociale e l’immaginazione. A queste incapacità, già di per sé gravissime, si aggiungono, nella maggioranza dei casi, ritardo mentale e altre patologie come la disattenzione con ipercinesia e il disturbo ossessivo-compulsivo, nonché gravi sintomi trasversali rispetto alle malattie psichiatriche come l’aggressività, la distruttività e l’agitazione persistente: sintomi gravissimi che, quando presenti insieme all’autismo, risentono minimamente dei farmaci, che anzi spesso presentano l’effetto paradosso: peggiorano in risposta a farmaci che in altre situazioni agiscono positivamente almeno nel mitigare, se non nel sopprimere, tali sintomi.

Nel campo dell’autismo siamo nella situazione in cui era la tubercolosi prima della scoperta degli antitubercolari, quando non era possibile un intervento sulla causa, ma solo su fattori favorenti la risposta alla malattia, come l’alimentazione e il clima. Ancora nel 2005 non conosciamo per l’autismo nessun meccanismo biochimico sul quale interagire e l’unico trattamento possibile è una abilitazione/educazione adattata ad ogni singolo individuo in base al suo profilo funzionale. L’integrazione prima scolastica e poi lavorativa dovrebbe pertanto inserirsi in un progetto di vita che miri al massimo del benessere per ogni individuo. Se dunque l’integrazione viene proposta come terapia, vi è evidenza che abbia una reale efficacia secondo i principi della “Evidence Based Medicine” o è un ideale di vita, mutuato da principi validi per l’umanità in generale, ma che potrebbero avere delle eccezioni?

Ci possono essere situazioni in cui è preferibile creare ambienti ad hoc per soli autistici?

In molte nazioni sono sorte comunità agricole per soli autistici, le “farm communities”, e da qualche anno anche in Italia è stata fondata la cascina Rossago con questa finalità.7

Queste esperienze meritano la massima considerazione e il massimo rispetto, anche se sono in contrasto con gli ideali di integrazione.

Alcuni autistici hanno una ipersensibilità a qualunque stimolazione ambientale e sociale e dimostrano di sentirsi meglio in un contesto protetto, creato apposta per loro; pertanto, allo stato attuale, caratterizzato dalla totale assenza di terapie chimiche che aiutino gli autistici a meglio tollerare un ambiente “normale”, è probabilmente giusto offrire l’una o l’altra possibilità agli autistici adulti, senza atteggiamenti manichei e basando il progetto di vita individuale sugli indicatori di benessere o malessere che questi soggetti, pur incapaci di comunicare, emettono con i loro comportamenti: problematici e intollerabili nelle situazioni a loro inadatte e più accettabili nelle situazioni a loro più congeniali.

Del tutto rispettabile è anche il parere di chi, come l’educatore D. H.8, ritiene che per alcuni disabili gravi sia preferibile impostare un progetto di vita fatto interamente di svaghi e attività ludiche.

“Conosco moltissimi “utenti” che non manifestano nessun interesse e nessuna passione per il lavoro, ma questo viene loro imposto. Escludendo i casi di vero e proprio sfruttamento, che comunque esistono, spesso lo scopo è ritenuto davvero la riabilitazione.

Proprio lì?

Molte di queste persone non hanno autonomia e non sono uguali agli altri per quasi tutti gli aspetti della loro vita. Non possono gestire autonomamente i soldi, comprando quello che pare loro, non hanno una vita sentimentale e soprattutto sessuale “normale”, qualcuno decide per loro nel bene e nel male le terapie farmacologiche che incidono sul loro umore. Noi “normali”, potendo scegliere tra quale di questi aspetti della vita eliminare, non rinunceremmo proprio al lavoro? Invece proprio lì si punta per renderli normali

YY insegue in modo martellante le sue manie, parla solo di quelle con tensione e ansia, gli piace, o perlomeno si rilassa, solo passeggiando per la città, mano nella mano dell’ accompagnatore, con la casa di qualche amico come meta per una merendina. Facciamolo passeggiare, non forziamolo a pelare patate perché pelare è produttivo e passeggiare no. Miglioreranno senza dubbio almeno le condizioni atletiche dell’ educatore”

In ogni caso, sia che si preveda un inserimento lavorativo integrato, sia che si creino attività e spazi protetti, sia che si programmi una vita fatta solo di passeggiate, progettare un’intera vita con l’autismo, sempre presente dalla culla alla tomba, sulle cui cause , totalmente ignote, non si può minimamente incidere, è una grande fatica e si sa a priori che a grandi sforzi possono seguire risultati solo parziali e certamente sproporzionati rispetto agli sforzi stessi.

L’educazione speciale ha fatto progressi, la farmacologia quasi nessuno. Questa situazione non dovrebbe essere accettata come ineluttabile. Si dovrebbe creare una collaborazione, un dialogo permanente tra educatori e medici ricercatori finalizzato alla scoperta anche di farmaci che aiutino i soggetti affetti da autismo a ridurre il loro malessere e gli educatori ad ottenere di più con una fatica minore dell’attuale, che è titanica e assomiglia molto al lavoro di Penelope.

Per ora comunque l’unica terapia è l’abilitazione, un progetto di vita di cui faccia parte, almeno per alcuni, un inserimento lavorativo studiato e preparato in funzione della qualità di vita dell’individuo e non certo della sua produttività


Da “L’integrazione scolastica e sociale”, 4/4, settembre 2005, pp. 327-334

3. Regione Emilia-Romagna, Agenzia Sanitaria: Assistenza alle persona affette da disturbi dello spettro autistico. Dossier n.103, 2004, Bologna, 2005; reperibile anche sul sito: http://www.regione.emilia-romagna.it

4. Micheli Enrico, Zacchini Marilena, Verso l’autonomia, Vannini editrice, Gussago (Brescia), 2001

5. Montobbio Enrico, Navone Anna Maria “Prova in altro modo”, Edizioni Del Cerro, Tirrenia, Pisa, 2003

6. Acquarone Nicola, Lepri Carlo, Montobbio Enrico, Navone Annamaria, Papone Gabriella, Campagna Giuseppe, Piacenti Fabio: Progetto Horizon “Autonomia compiuta”settembre 2000 “Guida all’inserimento lavorativo di persone disabili”, Grafica Romana srl Roma

7. Giddan J J , Ucelli Di Nemi S. , L’alternativa non urbana: le farm communities per adulti con autismo, Noos, Aggiornamenti in Psichiatria, 9, 4, ottobre-dicembre 2003, pp.341-350

8. Lettera inedita scritta nell’ottobre 2004 dall’educatore D. H. alla scrivente.



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